I tre giorni santi che hanno cambiato la storia
Gianfranco Ravasi
Anche oggi i pellegrini, a Gerusalemme, scendono per quella scalinata di epoca romana dal lastricato massiccio e un po’ lesionato: i suoi gradini si esauriscono nel letto ormai arido del torrente Qidron o Cedron (“l’oscuro”), che una volta scorreva ai piedi del Monte degli Ulivi.
Pure Gesù, l’ultima sera della sua vita terrena, aveva calpestato gli stessi massi, dopo aver consumato una cena d’addio coi suoi discepoli in «una grande stanza con tappeti, al piano superiore» di una casa di Gerusalemme, stando alle indicazioni topografiche dell’evangelista Marco (14,15). Seguiamo di nuovo quei tre giorni di Passione che hanno cambiato la storia iniziando da un giovedì della primavera forse dell’anno 30.
Entriamo in quella «grande stanza», il Cenacolo, che un po’ sconcerta il pellegrino. Se leva gli occhi al soffitto, scopre volte a sesto acuto tipiche dell’architettura gotica crociata: è, infatti, il segno di una cappella eretta dai francescani nel ’300. Se fissa la parete frontale, vede un inequivocabile mihrab, cioè quella nicchia che indica ai musulmani l’orientamento verso la Mecca per la preghiera: è, questo, il segno della trasformazione della cappella in moschea. Eppure lo sconcerto, accresciuto anche dalla mancanza di simboli cristiani essendo oggi l’edificio di proprietà ebraica, scompare se si fanno risuonare le parole dette da Gesù in quel crepuscolo primaverile. Davanti al pane azzimo e alla coppa di vino del rituale della cena pasquale egli aveva pronunziato due frasi che da secoli vengono ripetute ogni giorno in tutte le chiese del mondo: «Questo è il mio corpo… Questo è il calice del mio sangue». E poi aveva iniziato un fluviale discorso-testamento che occupa quasi cinque capitoli del Vangelo di Giovanni, un discorso “a ondate” che si ripiegano su se stesse, come usano dire i commentatori. E l’onda che più ricorre è una sola: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni e gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per chi ama…».
Poi era uscito da quella stanza, il Cenacolo, e per la scalinata romana sopra citata era sceso fino a un uliveto denominato Getsemani, in ebraico “frantoio per l’olio”. Ancor oggi sei ulivi millenari agitano le loro fronde al vento del deserto: il ceppo di uno di essi, all’analisi del C14, ha rivelato una datazione di 2.500 anni. Sotto quei rami contorti e nella tenebra di una notte drammatica Gesù prega in solitudine e lotta col terrore della morte. Ha scritto Pascal nei Pensieri (n. 553): «Gesù cerca compagnia e conforto agli o dagli uomini. È l’unica volta in tutta la sua vita. Ma non ne riceve, perché i suoi discepoli dormono. Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento». Ormai, però, si sentono già i passi del traditore, Giuda, uno dei Dodici, che avanza scortato da una pattuglia per arrestare il suo Maestro.
Dopo i due processi celebrati sbrigativamente, l’uno davanti al Sinedrio e l’altro col governatore romano Pilato, che condannano a morte Gesù, la scena è quella del Venerdì Santo. In una strada di Gerusalemme, che nei secoli poi avrebbe portato il nome di “Via dolorosa”, procede un piccolo corteo. Il condannato a morte – scortato da una pattuglia romana guidata da un centurione chiamato l’exactor mortis (l’“esattore” della morte!) – avanza reggendo il patibulum, cioè l’asse trasversale di quella croce il cui palo verticale era già piantato lassù, tra le pietre di un piccolo promontorio roccioso chiamato in aramaico Golgota e in latino Calvario, cioè “cranio”.
Questa era appunto l’ultima tappa di una storia iniziata nella notte precedente e nel mattino successivo, sviluppatasi nei palazzi del potere politico e religioso e approdata a una condanna capitale. Nelle prime ore del pomeriggio Gesù crocifisso aveva iniziato a dare i segni dell’agonia, vanamente placata da una bevanda di vino miscelata con fiele o mirra e succhiata da una spugna offerta al condannato su una canna. Eppure in quelle ore tragiche, nell’irrompere dell’asfissia e della lacerazione della carne, Gesù aveva avuto la forza di pronunziare “sette parole”, quelle che nei secoli successivi la musica cercherà di evocare in tutta la loro potenza (come non pensare a Haydn?). Ai suoi carnefici: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!». Alla madre, Maria, e al discepolo amato Giovanni: «Donna, ecco tuo figlio… Ecco tua madre!». Al probabile rivoluzionario zelota condannato con lui e divenuto popolarmente il “buon ladrone”: «Oggi sarai con me in paradiso». Al Dio assente e muto: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Al Dio-Padre sempre amato: «Padre, alle tue mani affido il mio spirito!». E poi: «Ho sete». E infine: «Tutto è compiuto!».
Ma, come ha scritto il romanziere greco Nikos Kazantzakis ne L’ultima tentazione di Cristo (1960), dopo aver pronunciato quel-
l’ultima parola, «fu come se avesse detto: Tutto comincia!». Infatti, credenti o increduli, non possiamo prescindere da quel condannato che raggruma in sé tutto il dolore dei secoli quasi incarnandolo. Per i cristiani è lo «scandalo» – è san Paolo a dirlo – di un Dio che soffre e muore, non avvicinandosi soltanto ma entrando nel limite angoscioso della sua creatura. Per i non credenti quell’uomo crocifisso rimane un segno che inquieta. Proprio come diceva lo scrittore argentino Jorge L. Borges: «La nera barba pende sul petto. / Il volto non è il volto dei pittori. / Non lo vedo/ ma insisterò a cercarlo / fino al giorno / dei miei ultimi passi sulla terra».
Si leva l’alba del terzo giorno, il Sabato Santo. Un antico detto rabbinico affermava: «Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». È curioso notare che tutte e tre le grandi religioni monoteistiche convergono a Gerusalemme attorno a una loro pietra sacra, fondamento di un tempio. Per gli ebrei, come dice l’aforisma citato, sono le pietre del tempio di Salomone (anche se esse in realtà appartengono al tempio eretto da Erode). Per l’Islam è la rupe dell’ascensione di Maometto al cielo, base della moschea di Omar, la cui cupola dorata sfavilla su Gerusalemme. Per i cristiani, invece, è la pietra ribaltata della tomba di Cristo che è al centro della basilica crociata del Santo Sepolcro, un monumentale edificio sorto su una chiesa voluta già nel IV secolo da Elena, la madre dell’imperatore Costantino. Quella lastra tombale è per i cristiani un segno di risurrezione: l’irreversibilità della morte è stata infranta dall’ingresso in essa di colui che è per definizione eterno, cioè Dio. Chi non ha in mente la possente Risurrezione di Cristo che Piero della Francesca ha dipinto nel 1463 nella sala del palazzo comunale del suo paese natale, che si chiama appunto Borgo Sansepolcro?
Eppure paradossalmente i Vangeli canonici non descrivono la risurrezione. Tutto è affidato all’annunzio di un angelo, cioè a una comunicazione trascendente, e a una nuova presenza di Gesù Cristo percepibile attraverso un’esperienza non meramente sensoriale: Maria di Magdala, che pure l’aveva ascoltato e seguito per mesi e forse anni, in quel mattino di Pasqua non riconosce Gesù, anzi, lo scambia per il custode del giardino cemeteriale di Gerusalemme. La risurrezione non è, quindi, la semplice rianimazione di un cadavere, è un evento trascendente che percorre e trasfigura la storia e l’essere. È solo una conoscenza dif-
ferente, condotta sul canale della fede, che ci fa intuire quello che Boris Pasternak in una sua poesia poneva sulle labbra di Cristo: «Scenderò nella bara e il terzo giorno risorgerò / e, come le zattere discendono i fiumi, / in giudizio, da me, come chiatte in carovana, / affluiranno i secoli dell’oscurità». Ma per tutti, cristiani e agnostici, vale forse quello che affermava uno scrittore “laico”, Alfredo Oriani (1852-1909): «Credenti o increduli, nessuno sa sottrarsi all’incanto di quella figura, nessun dolore ha rinunciato sinceramente al fascino della sua promessa».