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La bellezza dell’annuncio

​«Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede!”, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri». È davvero suggestivo questo monito di san Giovanni Damasceno, il cantore delle icone, per definire la funzione decisiva dell’arte nel primo annuncio della fede. Tuttavia, questo compito può essere espletato in modo altrettanto incisivo anche per la catechesi, come attesta la Biblia pauperum i cui fogli erano costituiti anche dalle “pagine” colorate degli affreschi nelle chiese o da quelle di pietra dei bassorilievi e delle sculture. Non per nulla negli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento si enunciava: «Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù dalla fede».
In tutte le fasi storiche dell’Occidente, ma anche della cristianità negli altri continenti, l’arte nella sua molteplicità è stata uno dei tramiti fondamentali per proclamare simbolicamente i contenuti del messaggio di fede. Guillaume de Jerphanion intitolò la sua imponente trilogia dedicata alle chiese rupestri della Cappadocia La voix des monuments (1930). Sì, non solo quelle sorprendenti architetture e quei mirabili affreschi, ma ogni espressione di arte, di letteratura, di musica e persino del cinema, si sono fatti voce per annunciare i grandi temi religiosi, le narrazioni bibliche, i personaggi della fede, così da condurre l’umanità «all’etterno dal tempo» (Paradiso, XXXI, 38).
Si è costituito un vero e proprio kérygma, un annuncio di fede, di morale, di spiritualità (certo, non sempre impeccabile), basato su uno sterminato patrimonio artistico accumulatosi nei secoli e che è percepibile entrando non solo in una cattedrale o in una chiesa di campagna ma anche visitando una pinacoteca o navigando nella Rete. Si tratta di un arcobaleno immenso di simboli, immagini, parole, suoni, una mirabile raccolta che purtroppo spesso è stata sfregiata da furti, spoliazioni, lesioni, devastazioni e soprattutto dall’indifferenza di certi pastori che dovevano essere i custodi e gli interpreti di questa vera e propria «estetica teologica», per usare la celebre formula del teologo Hans Urs von Balthasar.
È, perciò, significativo – anche attraverso la costante opera che fa questa rivista, col suo mirabile intarsio iconografico all’interno dei testi – ritornare alla riappropriazione amorosa di questi segni d’arte che fanno ancor oggi risuonare la loro voce potente per dire Dio in modo bello. Da questa base è possibile spiccare un volo ideale per continuare nel presente, seguendo le nuove “grammatiche” adottate dalle arti, così che l’annuncio della fede cristiana riecheggi e si esprima anche in forme inedite e persino sorprendenti. Come diceva Paolo VI il 7 maggio 1964 nella Cappella Sistina, è necessario che gli artisti ritornino a «carpire dal cielo dello Spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità». A conferma basti solo l’esempio della Sagrada Familia di Gaudí, a Barcellona: in forme inattese, persino provocatorie e in evoluzione continua, l’architetto catalano confessava di aver voluto rendere in quel progetto i tre grandi codici della Rivelazione divina: «Il libro della natura, il libro della Sacra Scrittura, il libro della liturgia».

di Gianfranco Ravasi