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Oltre Narciso e Babele, la forma della Grazia

​Il pensiero del bello, nella storia della nostra tradizione culturale, si muove lungo due grandi assi di riferimento. Il primo è quello che definisce – per così dire d’ufficio – l’integrità, la compiutezza, la perfezione. È il solco più arcaico, dove la bellezza è lo splendore della potenza: armonia dell’intelligenza e dell’audacia che illuminano la figura quasi divina dell’eroe-guerriero (Omero), la cui inviolabile integrità è al tempo stesso fisica e morale. Il secondo asse di riferimento si distacca dall’immagine della potenza per congiungersi con la tenerezza. Il bello, qui, appare piuttosto nel sublime di un amore che precede l’essere: e che solo a tratti lampeggia nella mente, aprendo come una ferita salvifica e irrimarginabile nell’anima (Plotino). La bellezza come pura attrazione al consumo del godimento, infine, in entrambi i casi, è concepita come momento transitorio e strumentale: irrimediabilmente ambiguo nei confronti del bello che deve rapirci l’anima e i sensi (Platone).
Nella bellezza autentica, in ogni modo, la potenza e la tenerezza devono vincere la sfida della loro intima unione: potenza della tenerezza e tenerezza della potenza, indisgiungibilmente. E la bellezza che annuncia il miracolo della conciliazione deve essere accolta come una grazia che può soltanto essere ricevuta: non prodotta, non calcolata, non requisita, non dominata. L’amore, del resto, non può raggiungere la propria verità e la propria giustizia in nessun altro modo. Un sogno impossibile, per come vanno le cose del mondo. Una promessa certa, che riempie il mondo di segni, per coloro che si lasciano aprire gli occhi dal Vangelo. «E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai di più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6, 28-30).
La misericordia è in rotta di collisione con l’auto-contemplazione ossessiva di Narciso e con il delirio di onnipotenza di Babele, che vivono di sacrifici umani. La misericordia riporta la bellezza nei luoghi che Narciso e Babele hanno già scartato, perché li considerano inabitabili per l’amore di sé e per la volontà di potenza.
L’atto della creazione sprigiona tutta la sua bellezza quando porta la traccia di un gesto d’amore per la vita. Ma è l’atto della redenzione che toglie alla bellezza ogni ambiguità, conferendo splendore insuperabile al gesto del suo riscatto. La misericordia, che riapre il regno di Dio come destinazione del mondo, è un atto di forza: il sentimentalismo di una commozione fine a se stessa gli è estraneo. Ma deve avere la forma della grazia, e non quella della pulsione o della costrizione, se vuole riaprire alla bellezza dell’amore la verità del mondo. Il narcisismo dell’estetico si converte in autolesionismo, e il monoteismo del sé rende inintelligibile l’umano a se stesso: l’arte che vi si abbandona si fa mosca cocchiera del nichilismo. La misericordia è un’estetica della redenzione. L’arte che ne accettasse la sfida potrebbe cambiare il verso spietato del tempo che abitiamo, in cui l’estetica del nichilismo va all’incasso del suo disprezzo per la creatura vulnerabile e indifesa.
 

di Pierangelo Sequeri

preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II