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Branzi, l'occhio e il tempo

A tu per tu con il giornalista e fotografo: l’Italia del boom, la vita quotidiana, la necessità di un’immagine etica

​Il tempo, la vita. La terra, il cielo. La povertà, l’ingegno... Nell’immagine scattata nel 1955 in un vicolo di Comacchio si trova condensata tutta la forza della metafora, con la ricchezza di significati che vi si nascondono. È la foto di un enorme orologio a cipolla, portato in spalla da un giovinetto, poco più che un bambino. Il quadrante è visto di fronte, il ragazzino da dietro, coi piedi sul lembo di una pozzanghera che fa da specchio. È una delle fotografie più note tra quelle di Piergiorgio Branzi (Signa, Firenze, 1928), artista dell’obiettivo per passione, giornalista di professione. Le sue immagini più belle, raccolte in oltre sessant’anni, sono proposte nel suo libro più recente, Il giro dell’occhio (Contrasto). Racconta: «Comacchio appariva surreale, tutta attraversata da canali e, come Pienza, completamente disegnata da un solo architetto. Vidi passare quel ragazzo con l’enorme orologio e lo convinsi a fermarsi un attimo accanto alla pozzanghera. Mi parve un’immagine suggestiva, densa di significato. Mentre fotografavo, altri ragazzini facevano coro attorno, guardavano incuriositi e dileggiavano e incitavano quello con l’orologio. Era un’epoca in cui ancora sembrava strano che qualcuno andasse in giro con la macchina fotografica: una rarità. Una sorpresa. E oggi, l’ho saputo in questi giorni, trovo una persona che s’è fatta tatuare sul braccio proprio quella foto...».
C’è un’ombra di sconcerto nelle sue parole. Quell’immagine raccontava un’Italia lontana: si era nel dopoguerra, agli albori del boom economico e la produzione fotografica e cinematografica si incentrava sul neorealismo. Nel 1952 Branzi, visitando una mostra di Cartier-Bresson, aveva scoperto la forza della fotografia come strumento capace di raccontare la realtà vera, diversa da quella sino ad allora trasmessa dalle immagini “ufficiali” diffuse sulla stampa e legate alla cronaca politica. «Cartier-Bresson, che pure fu maestro per tutti noi italiani, veniva da una delle più ricche famiglie francesi. Erede della tradizione del Grand Tour, esprimeva una cultura postcolonialista che lo portava a mantenere una certa distanza da chi non apparteneva alla sua classe sociale. La mia famiglia, profondamente cattolica, mi aveva educato a un atteggiamento diverso: di disponibilità, apertura, partecipazione. Per noi non sono mai esistiti i ladri, ma solo i poveri che non hanno altro ricorso per sopravvivere. I miei per diversi anni hanno tenuto una libreria e c’era chi rubava i volumi: li conoscevano, ma li lasciavano fare. Erano soprattutto insegnanti in pensione, impossibilitati a pagare i testi che desideravano leggere».

Leonardo Servadio