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Così scoprimmo i gusti degli altri

La dimensione culturale del cibo è stata una lenta presa di coscienza, non priva di incontri choccanti

​L’alimentazione, la qualità del cibo, i modi per procacciarselo, prepararlo, conservarlo e consumarlo, i rapporti tra alimentazione e altri aspetti della vita di una civiltà, le arti, le tecniche e le scienze che con tutto ciò hanno attinenza, il rapporto tra cibo, medicina e salute, sono stati a lungo oggetto solo di una “storia minore” che confinava con la curiosità e l’erudizione e che nella migliore delle ipotesi riguardava i folkloristi, gli “storici delle tradizioni popolari”. Nella cultura di derivazione “classica”, cioè greco-romana, i cinque sensi erano rigorosamente ordinati in una gerarchia di differente dignità a seconda della loro “spiritualità” o “corporeità”: pertanto ai due sensi più nobili, la vista e l’udito, venivano accostate le arti, la poesia e la musica, mentre tatto, gusto e olfatto venivano collegati a un più basso gradino, corrispondente alla materialità e alla corporeità delle sensazioni che provocavano e delle attività nelle quali erano coinvolti. Michail Bachtin ha coniato l’espressione “basso-materiale-corporeo” per tutto quello che riguarda il cibo, le attività sessuali, le funzioni corporee, le sensazioni a ciò in vario modo connesse.
Questa lunga, tenace catena di pregiudizi estetici e culturali cominciò a mostrare delle crepe concettuali nella seconda metà del secolo scorso con la Nouvelle Histoire di Fernand Braudel e della sua scuola. In quell’ambito si inaugurarono – in un clima di interdisciplinarità tra scienze storiche e scienze umane, con riguardo particolare all’etnologia e all’antropologia culturale – nuove discipline che toccavano i campi, ad esempio, della “storia delle mentalità” e della “storia materiale”. In questo crocevia si situarono esperienze innovative di storie “dei cinque sensi”, con sviluppi sorprendenti, ad esempio nella direzione della “storia dei profumi e degli odori” inaugurata da Henri Corbin, e della storia non tanto “del gusto alimentare”, della gastronomia, della tavola e della tassonomia delle vivande quanto delle vere e proprie “strutture del gusto”, nelle quali fu maestro il geniale Jean-Louis Flandrin, affiancato da studiosi di straordinario valore quali Odile Rédon e Massimo Montanari......

 

 

Dimmi cosa mangi,

ti dirò cosa credi

 

Alla fine del Duecento Marco Polo notava a proposito dei cinesi che «mangiano ogni tipo di carne, anche di cane, e in generale di tutti gli animali»; oggi, scherzando ma non troppo, sono i cinesi a dire di se stessi che si nutrono di tutti gli animali che si muovono; e così sottolineano una millenaria mancanza di tabù alimentari, magari non totale, ma comunque molto ampia se messa a confronto con gli ambiti religiosi cui siamo maggiormente abituati. I monoteismi abramitici sono infatti densi di indicazioni e prescrizioni sulla ritualità legata al cibo: non solo proibizioni ma anche feste in cui si coagulano tradizioni su cosa sia opportuno o meno mangiare. Ci sono in particolare alcune fra queste celebrazioni che è difficile immaginare (se non per il nostro presente privo di norme, certamente per il passato anche prossimo) slegate da determinate preparazioni. La Pasqua è certamente la regina delle feste se si guarda alla ritualità alimentare.
«Il Signore disse a Mosè e ad Aronne nel paese d’Egitto: (...) Parlate a tutta la comunità di Israele e dite: il 10 di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. (...) Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case, in cui lo dovranno mangiare. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. (...) Osservate gli azzimi, perché in questo stesso giorno io ho fatto uscire le vostre schiere dal paese d’Egitto; osserverete questo giorno di generazione in generazione come rito perenne». Su questi passi dell’Esodo si fonda l’istituzione del Pesach, ossia della Pasqua ebraica, e la spiegazione del suo significato di “passaggio”. Pesach vuol dire infatti “passare oltre”; originariamente gli ebrei festeggiavano riti a carattere agro-pastorale nel plenilunio del primo mese lunare dopo l’equinozio di primavera (oggi la data è fissata al 14 nisan, equivalente del nostro aprile), sacrificando un animale del quale consumavano ritualmente la carne e spargendone il sangue a protezione dell’abitato. La festa passò poi a ricordare l’episodio biblico in cui Iahweh risparmia i primogeniti ebrei, uccidendo invece quelli egiziani, e “saltando oltre” le loro case grazie al sangue dell’agnello che ne contrassegna le porte.
 
di Franco Cardini