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Il tempo perduto dei mezzadri

L’artista, figlio della civiltà contadina, rievoca come in un rito sciamanico le figure e le forme vive al tempo dell'infanzia

​Massimo Lippi

Li sentivi crescere dentro le mura del castello interiore quei brividi ghiacci che solo il mondo dello spirito può mandarti per via d’un terremoto silente, lungo la dorsale d’un pensiero che si sgretola a poco a poco. Così è morta la civiltà contadina alla fine degli anni Sessanta. Di quale secolo? Forse dopo l’onda lunga che viene dai progressivi annottamenti, ma è certo che il secolo scorso è quello che ha dato la sentenza finale. Coloro che organizzano tutto, i “poteri forti”, segnano le date della cronaca corrente, insieme alle battaglie d’ogni genere: studiano la durata dei re, degli imperi, delle epidemie o quando è sorto il primo Carnevale di Venezia o altri eventi. Sono date ancora in bilico perché passano come un vento vorticoso sulle stagioni del mondo e rivelano l’essenza di ogni pertugio che alligna sopra l’ecumene.  Ma qui si discorre della morte di un popolo che aveva l’età della terra coltivata, cioè della nostra storia. Dunque, il lutto è più grande, immenso il mio dolore.
Io appartengo a questa tribù contadina e non ascolto le untuose parole di condoglianze dei consolatori a cottimo. Alce Nero e la sua gente vagano ancora nelle loro praterie: invisibili carovane di erranti discesi di nuovo tra noi a vegliare la nostra agonia. Anche loro passarono sotto la macina che stritola le ossa dei popoli e delle nazioni. Ascolto quella loro muta presenza, li vedo salire dal fondo dell’America, dal New Mexico al Canada, in fila indiana e li conto, uno per uno, in questa sterminata processione. Davvero gente sterminata. Ma io appartengo a un’altra tribù, quella degli Etruschi. Per meglio dire, appartengo a quelle famiglie temprate di scalpellini del romanico che arruffavano la criniera di due leoni stilofori. Non si può vivere come bestie, ammesso che le bestie non abbiano memoria, dimenticando l’essenza del vivere e del morire. Quando sarà successo che un uomo ha gettato un seme al tempo giusto, aspettando il tempo sacro del raccolto? Lì è nata la speranza in Dio: l’agricoltura. Da quel momento è arrivata sulla terra una domanda e una risposta inebriante che ti scende fulminea nell’anima e ti esalta e ti fa partecipe dell’universo creato. Quel giorno è nato il grano come cibo sottratto al ventre, non mangiato dalla comunità. Via l’egoismo, via la vista corta di chi raccoglie a caso. Ora è nato un sistema che moltiplica la speranza. È nata la Pace dei campi dove germoglia la vita, come germogliano i figli insieme al rossore delle ciliegie. In molti lo insidiano quel seme gettato a folate con inaudita generosità. Gli uccelli rapinano presto quel seme, i rovi lo affogano con un’indolente penombra. Il terreno sassoso non lo incorpora, anzi lo brucia il sole. Poi c’è la zizzania che aumenta tutte queste insidie che si addensano voraci contro chi ha coltivato il terreno e ha preparato ad arte la speranza. Eppure Adamo obbedì, malgrado avesse trasgredito a Dio, lavorò il suolo insieme a sua moglie Eva. Ferirono con un legno aguzzo la terra primordiale. Crearono le premesse di un buon raccolto. Così nasce il lavoro redentivo, quel corpo a corpo con l’argilla, come fa lo scultore che predispone la terra intorno alle strutture portanti che costituiscono le sue opere e le ricopre d’amoroso entusiasmo, dandogli vita. Forse i progenitori conficcarono una pietra aguzza in un ramo a due corni, come un manubrio e ne fecero un aratro rozzo ma bellissimo, trainato da una corda intrecciata alla meno peggio, quasi cantando. Così m’immagino vivere i primi contadini. Aprirono la terra come si apre il pane, uscito croccante dal forno, per deporci dentro il seme caldo d’una preghiera. Quel seme rubato alla fame: coltivare, sperare nel tempo buono, aspettare vigilando in pace. Affidarsi alla Divina Provvidenza mentre si affilano gli arnesi, non le armi. Così ha preso l’abbrivio la nostra storia.
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