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Salgado anno zero

In “Genesi” il grande fotografo brasiliano ritrae la natura allo stato puro

Galápagos (Ecuador), 2004

Galápagos (Ecuador), 2004

«Sono nato settant’anni fa nello Stato più barocco del Brasile: il Minas Gerais». Un barocco architettonico e paesaggistico. «È una regione montuosa, di una bellezza mozzafiato. I colori della stagione delle piogge sono poetici. Le nuvole sono di un grigio così carico che sembrano sul punto di scoppiare. I raggi del sole le squarciano all’improvviso… Da bambino, mio padre mi portava a fare lunghe passeggiate e mi faceva notare ogni dettaglio. Era un osservatore acuto e appassionato. Quando scatto mi porto dietro questa eredità».

Sono i luoghi dell’infanzia la “genesi” del Sebastião Salgado fotografo. E anche del suo ultimo, monumentale lavoro. Un ritorno alle origini: non individuali ma universali. L’obiettivo salgadiano cattura stavolta le «periferie della civiltà del pianeta». Quegli angoli di mondo «ecologicamente puri, ancora primordiali – dice – che formano il 45 per cento della terra», spiega l’artista brasiliano, tornato a Milano dopo 14 anni di assenza per presentare Genesi. Dopo quattro decenni trascorsi a fotografare l’animale-uomo e la sua lotta per la sopravvivenza, Salgado si concentra ora sui “sopravvissuti” all’abbraccio, spesso letale, della modernità. Fauna e flora sono il soggetto privilegiato dell’esplorazione, insieme alle popolazioni indigene più isolate e, dunque, autentiche. «Non c’è differenza tra il fotografare l’uomo o gli animali o le montagne. Siamo tutti esseri viventi, in modi differenti», spiega, conficcando gli occhi azzurri sul viso dell’interlocutore. L’idea di cambiare oggetto di indagine è nata proprio in Minas Gerais. O meglio dal Minas Gerais......

di Lucia Capuzzi