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Vangi, emozioni di marmo tra umano e divino

Lo scultore fiorentino si racconta: l’amore fin da bambino per l’arte, gli anni in Brasile e l’incontro con le favelas, la centralità della figura e i grandi interventi nelle cattedrali di Padova, Pisa e Arezzo

​In bilico tra cielo e baratro, questa la linea di confine su cui si gioca la scultura potente di Giuliano Vangi, tra i massimi artisti della nostra contemporaneità. Grande perché i suoi marmi e i suoi bronzi provocano stupore e gli occhi si fanno domanda: come può dare vita a una pietra, come può trasformare un tronco in uno sguardo? Accade un miracolo: il marmo sorride, il legno ci interroga. Perché l’opera d’arte, quella vera, non può che essere l’eco, più o meno lontana, più o meno potente, di quell’opera d’arte suprema che è il soffio della vita donato a un pugno di polvere nell’Eden. E il miracolo accade anche oggi, quando la materia viene plasmata dalle mani di Vangi. Mani antiche, sbocciate nel 1931 a Barberino di Mugello, la terra di Giotto. Mani che fin da bambino hanno preferito al gioco il disegno e l’arte di plasmare. Una vocazione compresa da nonno Paolo. «Il babbo di mia mamma era del Mugello. Amante della musica, per primo notò la mia passione per l’arte e mi aiutò moltissimo. Andava al fiume a prendere la creta e la impastava perché potessi modellarla. Mi raccontava delle chiese che vedeva giù a Firenze. Suonava per me la chitarra. Un giorno mi regalò un mazzuolino e gli scalpelli. Avevo dieci anni e lo ricordo come il mio primo dono: finalmente potevo scolpire. Ma il vero regalo del nonno era il suo amore per l’arte e quel suo sguardo che è anche il mio, mai pago di bellezza»......
 
di Giovanni Gazzaneo