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182 dentro l'opera

C’è tutta Roma, quel giorno di aprile dell’anno 1520. Nella chiesa del Pantheon si officiano le esequie di Raffaello da Urbino, morto il 6 di quel mese, venerdì santo, a trentasette anni. Deve essere stato un funerale partecipato, commosso e commovente come pochi altri nella storia della Città eterna. Raffaello era celebre, tutti in Italia e in Europa lo conoscevano come vero e proprio stupore del secolo, quasi un Apelle reincarnato.
Per papa Giulio II aveva dipinto l’appartamento privato, quegli ambienti che tutto il mondo da allora in poi conoscerà come “Le Stanze”. Pochi mesi prima (era il dicembre dell’anno 1519, festa di santo Stefano) aveva consegnato a papa Leone X Medici gli “Arazzi”, i dieci grandi tessuti con le storie di Pietro e Paolo destinati a ornare le pareti della Cappella Sistina e che erano costati la cifra vertiginosa di settantamila ducati. Non c’è niente di più bello al mondo, «nihil pulchrius» avevano pensato e scritto, stupiti e ammirati, i prelati e gli intellettuali presenti alla inaugurazione. Così come non c’era nulla al mondo che potesse essere paragonato per venustà, originalità e splendore – così scrisse Baldassar Castiglione in una lettera a Isabella d’Este – alla grande loggia dei Palazzi apostolici, conclusa dalla équipe di Raffaello nel giugno di quello stesso 1519, vero annus mirabilis nella biografia del pittore e nella storia di tutte le arti.

Raffaello era immensamente, meravigliosamente bravo. Lo sapevano i suoi grandi committenti: i papi Giulio II della Rovere e Leone X de’ Medici, il re di Francia, il banchiere e mecenate Agostino Chigi. Ma Raffaello piaceva anche per ragioni che potremmo definire popolari e sentimentali. Era molto bello: di una bellezza amabile e gentile che incantava. Lo dicono le fonti, lo testimoniano i contemporanei. Ce lo rendono evidente gli autoritratti che di lui si conservano. Bello e gentile, cordiale e piacevole con tutti, con il papa come con ciascuno dei suoi numerosi allievi, Raffaello amava, riamato, le donne e anche questo era un aspetto del suo carattere che lo rendeva simpatico a tutti. Un vero e proprio leggendario romantico è nato intorno agli amori di Raffaello per la celebre Fornarina.
Ebbene questo giovane uomo che dalla vita ha avuto tutto, fortuna, successo, amore, l’ammirazione dei grandi della terra e il cui futuro appare gremito di meravigliosi progetti, muore improvvisamente, dopo soli quindici giorni di febbri. Egli stesso richiese che le esequie si tenessero al Pantheon, dove il pittore è ancora oggi sepolto. Quel giorno nella Rotonda tutta Roma piangeva anche perché – dice il Vasari – dietro il corpo esanime di Raffaello giacente sul letto mortuario, era stata collocata la Trasfigurazione così che nel vedere «il corpo morto e quella viva», era impossibile trattenere le lacrime.
E ora fermiamoci di fronte alla Trasfigurazione, il capolavoro dei capolavori, il dipinto che sta allo zenit di tutta la produzione di Raffaello, concludendola ed esaltandola dal punto di vista cronologico e stilistico.

La parte inferiore ruota intorno al dramma del ragazzo indemoniato. È il luogo della paura, dell’angoscia di tutti e di ognuno, della contrastata speranza. Il ragazzo posseduto dal male, come ogni vivente sotto il cielo, chiede di essere liberato dalla sventura. Chi gli sta accanto (la madre, gli altri personaggi) vogliono aiutarlo, sanno che la sua salvezza è anche la loro. Ma solo Cristo, trasfigurato sul Tabor, salva. I toni scuri, drammaticamente realistici, quasi capaci di anticipare Caravaggio, gli effetti di una concitata pittura “in nero”, caratterizzano la parte inferiore della composizione. Mentre in alto trionfa la luce. La luce è vocabolo di Cristo Salvatore, per questo il suo volto splende come il sole meridiano.
Noi ci poniamo di fronte a questo dipinto e comprendiamo l’essenziale. Capiamo che Raffaello è come uno specchio che riflette imperturbabile, olimpico, il mondo di Dio e quello degli uomini. C’è tutto nell’opera di Raffaello e in questo dipinto sublime più che in ogni altro. Ci sono le umane passioni, le paure, i contrastanti sentimenti (il gruppo di uomini e di donne che si agitano ai piedi della montagna dove si apre la visione) c’è lo splendore infinito del mondo visibile (il tramonto romano dietro il Monte Tabor), c’è la consolazione della Bellezza che scalda il cuore e ci fa sentire, almeno per un momento, felici e grati di esistere.

di Antonio Paolucci