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A Reggio, un pomeriggio

​Un vento soffice e nuvole vagabonde all’aeroporto dello Stretto, piccolo spazio alla fine della terra: questa fu la mia prima immagine quando atterrai a Reggio Calabria. E la seconda, che mi fece sobbalzare il cuore per l’intensità delle memorie, dei versi, dei personaggi che si affollarono improvvisamente intorno al mio cuore, fu la visione dello stretto e della costa di Messina: pareva di toccarla, ed era un altro mondo.

Reggio confluisce tutta verso il mare, con le sue strade regolari e diritte. È una città curiosa, vispa, accogliente – e molto moderna, dato che fu completamente distrutta dal terremoto del 1908. Ma gli alberi che sorvegliano la lunghissima via Marina, la passeggiata a mare, loro, non sono moderni. Sono enormi, affascinanti giganti dall’aspetto di mostri antichissimi, che sfidano e circoscrivono la luce possente, con immense radici ramificate come serpenti oscuri, e traggono linfa e sostanza da una terra generosa. Cento cavalieri e il paladino Rolando, con l’olifante e la spada Durlindana al fianco, potrebbero nascondersi alla loro ombra, mi trovai a pensare stupita, e mi accostai con rispetto per sedermi in mezzo a quell’ombra sacra.

E poi andammo a Scilla, e dal castello Ruffo alto sul mare e avvolto dal sole del primo pomeriggio ci si immergeva nella luce degli dei e degli eroi. C’era Ulisse, c’erano le Sirene, c’erano i compagni del re di Itaca, e qualcuno di loro gridava per sovrastare il canto delle donne fatate. Come sorgendo da quel mare violetto, mi sembrarono tornare ad affiorare i Bronzi di Riace, i due semidei nudi ed austeri dalla postura solenne e dagli occhi splendenti, che ricomparendo davanti a noi ignoranti ci hanno dato la visione vera della statuaria greca.
Cioè, in fondo, di quella cultura da cui tutti discendiamo, che ancora ci nutre, anche se facciamo finta di non accorgercene, di sapere tutto e di tutto essere annoiati, in questo nostro mondo postmoderno, come si usa dire. Ma altra cosa è vedersi affrontati da quegli occhi immobili, magnetici, e ricordare che le statue greche, che sempre vediamo con orbite cieche, in realtà sempre li avevano, gli occhi, e quel colore di ossidiana a contemplarlo ti perforava, come gli occhi magici dell’Auriga di Delfi. Ero andata apposta a Firenze per vederli, i due bronzi, tanti anni fa, ed erano magnifici; ma, al Museo di Reggio, ebbi come il riconoscimento di una protezione antica, un senso di famigliarità strana con le radici oscure del cuore.

Forse, mi spiegava il saggio direttore del Museo, furono buttati a mare per salvare la nave su cui erano trasportati, durante una tempesta; ma forse, potremmo anche pensare, erano destinati ad essere ritrovati così, intatti e forti, perché ci ricordassimo sempre da quale perfezione veniamo.

di Antonia Arslan