Luoghi dell' Infinito > Caravaggio, il presepio dei poveri

Caravaggio, il presepio dei poveri

​Gli ultimi anni della vita di Michelangelo Merisi da Caravaggio sono una sceneggiatura drammatica, un susseguirsi di episodi cruenti. Prima c’è l’uccisione a Roma, in Campo Marzio, per una rissa nel gioco della palla corda, di Ranuccio Tomassoni (1606). Caravaggio è costretto a scappare perché su di lui pesa la condanna a morte. Ha ucciso un uomo e nulla possono più fare per lui i suoi illustri protettori, i suoi grandi collezionisti (il marchese Giustiniani, i Colonna, i cardinali Del Monte e Borghese). Dopo una breve sosta oltre confine, a Napoli, troviamo Caravaggio espatriato a Malta. Gode dell’ammirata protezione del Gran Maestro Alof de Wignacourt, è lusingato dall’idea di diventare cavaliere, di essere cooptato nell’Ordine. Nell’isola governata da questo aristocratico club internazionale di monaci guerrieri, egli realizzerà le sue opere più grandi come la Decollazione del Battista, custodita nella concattedrale di La Valletta.

Ma le disavventure del pittore continuano. Perché a Malta nel 1609 Caravaggio finisce in prigione per una rissa a mano armata scatenata contro altri cavalieri. Non conosciamo i motivi che hanno provocato l’episodio. Su questo i documenti sono reticenti. Sappiamo però che Caravaggio viene radiato dall’Ordine «tamquam membrum putridum et fetidum». Finisce nelle galere maltesi e da lì, dopo una fuga rocambolesca, approda sulle coste siciliane.
Il pittore si è ormai incamminato sulla china rovinosa che da qui a un anno (il 18 luglio del 1610) a soli 39 anni di età, lo porterà a morire – consumato dalle febbri malariche e dissanguato dall’assalto all’arma bianca subito a Napoli – sulla spiaggia di Porto Ercole.

Per un breve periodo della sua vita tumultuosa Caravaggio risiede e lavora in Sicilia, prima a Messina poi a Palermo. A Messina ci lascia lo straziante drammatico Presepio attualmente conservato nel Museo Regionale di quella città.
La grande tela (è alta più di tre metri) stava in origine sull’altare maggiore di Santa Maria della Concezione, retta dai Padri Cappuccini. L’opera fu commissionata dal Senato della città per un compenso di mille scudi; una cifra più che notevole per gli standard dell’epoca e che ci fa bene intendere il livello di notorietà e quindi il prestigio anche di mercato raggiunto dal pittore.

Sarà stato forse per effetto del pauperismo predicato e praticato dai francescani titolari della chiesa alla quale il dipinto era destinato, ma io non conosco un Presepio più povero e quindi più commovente di questo. Bisogna leggere prima il Vangelo di Luca: «C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore, che è il Cristo Signore.

Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”» (2, 8-12). Subito dopo leggiamo la descrizione che di questo quadro diede Roberto Longhi nel 1952: «La Madonna col minuto bambino sotto lo sguardo apprensivo dei pastori quasi colati in bronzo, appare spersa su quel poco di strame pungente, entro quel chiuso di animali immobili come oggetti, di assi e di stoppie che soltanto un lucore all’orizzonte sembrava interrompere […] mentre scivolata in primo termine verso di noi una specie di natura morta dei poveri, tovagliolo, pagnotta e pialla da falegname in tre toni di bianco, bruno e nero, si restringe a un’essenza disperata».

di Antonio Paolucci