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Johannesburg, la speranza è una collina

​Johannesburg, un’immensa città africana a vent’anni dall’apartheid. Un posto complicato, difficile, ma anche in rapida trasformazione. I neri che abitavano nelle township di baracche e lamiere alla periferia della città si sono appropriati del centro da cui i bianchi sono fuggiti. Un centro che ha un carattere simbolico perché di qui si doveva sempre passare per andare dalla città dei neri a quella dei bianchi. Oggi i neri, con le loro varie appartenenze culturali e tribali, cercano di installarsi attorno al centro storico e lo fanno come possono, costruendo quartieri informali per ridensificarlo. Nascono così nuovi slum, che sono il modo di riappropriarsi di una città che ha sempre invece cercato dispersione e separazione.

Nadine Gordimer, premio Nobel per la Letteratura 1991, nel suo ultimo libro tradotto in Italia, Ora o mai più, racconta le difficoltà di una coppia mista – lei nera, avvocato e lui bianco, insegnante – nel cambiare quartiere e cercare di vivere una vita fatta di socialità e di spazi comuni con vicini. Ma Joburg, o Jozi come la chiamano i suoi abitanti, è per storia una città con quasi nessuno spazio pubblico comune, e allora è difficile non aver paura che torni una dimensione di insicurezza e di barriere perfino tra le case di una stessa strada. Le bidonville offrono una socialità e un senso di appartenenza che oggi, ad apartheid superato, significano riuscire a vivere la città come occasione di aggregazione.

Però tra gli spazi informali, da qualche anno, una collina sopra la città, Yeoville Ridge, è diventata un luogo ad alta densità simbolica. La chiamano “God’s Hill”, la collina di Dio. Qui, un luogo tranquillo e con una vista panoramica superba sulla città, arrivano gruppi religiosi di vario tipo a pregare. È un’aggregazione spontanea di gruppi di varia provenienza, differenti Chiese nere cristiane, immigrati che arrivano dal lontano Gambia o da Paesi confinanti, ma anche gente di Jozi che viene qui a pregare. Intervistati, dicono che è meglio qui che nelle chiese: perché qui «non si paga», ma soprattutto perché qui il culto diventa un tutt’uno con la pace del luogo e con l’intenzione di stare insieme. È una collina povera ma piena di verde e con una torre in mattoni. La città vista dall’alto rimanda al distacco che ci vuole per riuscire a viverci. Un posto semplice, che ricorda a tutti come i luoghi sacri siano quelli eletti dalla convergenza del silenzio, della solitudine e da una certa rilevanza: l’ascesa che richiede si accompagna al “sentire” che qui si è più vicini alla Presenza a cui ci si vuole rivolgere.

di Franco La Cecla