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Manzoni, Montale e la festa dell’amicizia

​Pioggia a Milano, uggiosa. Scarpe bagnate, ombrelli insufficienti, laghetti insidiosi di pozzanghere, un po’ di stanchezza e qualche piccola ansia (un mese fa ho “abbracciato” l’asfalto - molto malvolentieri, in verità - scivolando su un cordoletto di marciapiede, e ho la faccia di un panda acciaccato).
Poi sono accadute cose meravigliose: ho ricevuto caldi abbracci da molte persone; ho gustato i meravigliosi risotti di Roberto; ho fatto la scoperta di un gioiello, Casa Manzoni, una dimora-museo che si è adattata perfettamente all’immagine di lui che avevo in mente; ho ricevuto tanti sorrisi dal cuore, in una gioiosa festa dell’amicizia. E tutto è cominciato già dal momento della partenza da Padova: niente treno, sono stata accompagnata molto confortevolmente in macchina da Fabio, il primo degli amici di questi giorni.
Nel corso di un pomeriggio di commovente  freschezza e simpatia, il 6 marzo scorso, ho ricevuto il “Premio Montale Fuori di Casa” proprio a Casa Manzoni, dove mi ha introdotto una nuova cara amica, Jone; e in mezzo al pubblico c’erano vecchi amici armeni, alcuni compagni di un indimenticabile viaggio a Gerusalemme e Massimo, imprenditore e fotografo che aveva conosciuto il carissimo Adriano Alpago Novello, l’uomo che ha rivelato all’Italia (e a me...) le bellezze d’Armenia e delle “chiese di cristallo”, indimenticabile guida del mio primo viaggio nel paese dei miei avi. Ho visto Davide; c’erano Ambrogina e Giannantonio, Ettore, Luca e Alessandra; Adriana, il mio caro Giovanni e la sua schiva, ridente Patrizia.
Ma altro ho ritrovato in questi giorni a Milano: la sua ritrosa amabilità, che ho imparato ad amare molti anni fa, quando il  nipote di Neera (Anna Radius Zuccari, la grande voce dell’Ottocento lombardo) mi affidò l’archivio della celebre nonna, che aveva custodito in modo esemplare dopo la morte di lei. Corradino Martinelli era un “ragazzo del ’99”: dopo essere stato arruolato nell’ultimo anno di guerra, era stato preso prigioniero e internato fino alla fine del conflitto. Così non c’era alla morte di lei nel 1918, e ancora se ne rammaricava. Quando lo conobbi aveva ottant’anni, e facemmo grande amicizia. In città, conosceva numeri e frequenze di ogni tram e bus, ogni stazione della metro, coincidenze e percorsi. Mi condusse per vie e quartieri, narrandomi le loro storie, indicandomi i luoghi dei mestieri scomparsi, in un forbito italiano screziato di elegante milanese. Cominciai ad andare a casa sua una volta al mese per un paio di giorni, frequentando quelle carte dimenticate, che mi rivelavano il mondo dei salotti dell’Ottocento, con le loro geniali signore e gli scrittori, i giornalisti, i pensatori che li frequentavano; leggendo le lettere, i biglietti, gli appuntamenti che si scambiavano anche più volte al giorno. E da quella fittissima attività epistolare mi si spalancava davanti - con amicizie e inimicizie, proposte di lavoro, nuovi movimenti letterari, pettegolezzi e chiacchiere quotidiane - il nascere della cultura dell’Italia unita.
Da lui imparai molto. Amavo la strada dove abitava in fondo a via San Vittore e tutto il quartiere, divenni di casa nella vicina pasticceria nella splendida farmacia liberty, nel giardinetto spelacchiato ma gradevole; molto lavorai e imparai dall’archivio; e vedo Milano attraverso i suoi occhi.