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Masaccio, Cristo al centro della Storia

​C’è un episodio nei Vangeli che può essere considerato la pietra angolare sulla quale riposa, almeno in questa nostra parte del mondo, la moderna idea della autonomia della religione dal potere politico. È l’episodio celebre del «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Il fatto, raramente rappresentato nell’arte, ha la sua traduzione figurativa più efficace e più celebre nell’affresco che Masaccio dipinse, circa l’anno 1425, sulle pareti della cappella Brancacci, nella chiesa del Carmine, a Firenze.
Aveva meno di venticinque anni Masaccio quando, in società con il più vecchio Masolino, dipinse il Tributo, parte di un ciclo pittorico dedicato a san Pietro. Fu san Pietro infatti (Matteo 17,24-27) a pescare, nel mare di Cafarnao, su ordine di Gesù, il pesce che portava in bocca la moneta del tributo e a consegnarla all’esattore delle tasse. Il pagamento delle tasse all’autorità legittimamente costituita è un dovere sociale al quale il cristiano non può e non deve sottrarsi.
Per alcuni storici moderni (Meiss, Berti) Masaccio e il suo committente hanno voluto mettere in relazione la scena del Tributo con l’istituzione, da parte della Repubblica fiorentina, del Catasto, l’ufficio che obbligava i cittadini alla denuncia dei redditi e al conseguente prelievo fiscale finalizzato al bene comune. Indipendentemente dalle intenzioni politiche che il committente Felice Brancacci, autorevole rappresentante dell’oligarchia alta borghese in quel momento dominante a Firenze, voleva fossero significate nel Tributo, Masaccio diede dell’episodio evangelico una interpretazione straordinariamente originale e profondamente innovativa.
Cristo sta al centro di quello che è stato definito da Ferdinando Bologna «un Colosseo di uomini» e fra questi, sulla destra, nel personaggio barbuto e panneggiato, è forse riconoscibile il committente. Sono uomini che gettano sulla terra ombre vere, che dominano la scena con monumentale maestà, quasi in competizione con la cerchia delle montagne che li circonda. È la terribile moralità del Vero costruito e svelato dalla luce, l’autentica protagonista della scena. Si capisce come, partendo da qui, la strada sia aperta fino a intravedere, oltre il Raffaello delle Stanze, il Caravaggio delle tele Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma.
Chi conosce un poco il paesaggio toscano sa che le montagne che fanno corona al Tributo sono quelle del Pratomagno. Sono le montagne che Masaccio poteva vedere, come ciascuno di noi ancora oggi, sostando sul sagrato della Pieve di Santa Maria, nel borgo nativo di San Giovanni Valdarno. Mentre il mare dal quale san Pietro, accovacciato sulla riva, sta pescando il pesce portatore della moneta, altro non è che l’ansa, simile a un lago, che il fiume Arno forma poco prima di entrare nel territorio di San Giovanni. In alto le nuvole sono scalate in prospettiva, a misurare la luminosa profondità del cielo nell’ora meridiana. Fuoco della scena è il Cristo. Molto si è disputato se il volto del Salvatore sia stato realizzato da Masolino prima della partenza per l’Ungheria o non sia piuttosto un omaggio di Masaccio allo stile del più anziano collega. Quello che è certo è che il Gesù del Tributo sembra dominare il mondo e la storia, l’universo che ci circonda e le opere e i giorni degli uomini.
 
di Antonio Paolucci