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Profumi di strada, il gusto della città

​Mercati e cibo: l’uso diffuso in molte parti del mondo di mangiare per strada, seduti su panche o cassette, su scalini e marciapiedi mentre chi cucina è ben visibile di fronte a voi a impastare, lanciare in padella, rimestare zuppe e disporre il cotto su piatti improvvisati, foglie di banano o carta. Questa attività, tanto cara a coloro che seguono la moda dello street food, è però osteggiatissima da Unesco, Fai e cultori vari dei monumenti. Appena un sito viene dichiarato “patrimonio dell’umanità” viene svuotato di vita, clinicizzato e sottoposto a quello che Marco d’Eramo chiama “urbanicidio”. A nulla serve rimarcare che il senso di certe piazze è proprio il fatto di contenere mercati e tutta la vita che vi gira intorno. Non serve far notare che proprio il cibo di strada e i mercati sono la matrice di molti spazi urbani, dalla “Fera del Lune” a Catania fino alla piazza principale di Quito. No, interviene l’Unesco e ripulisce dalla vita spazi affollati per dare splendore ai monumenti, ignorando che una cattedrale barocca nasce come espressione della fede di un popolo, lo stesso popolo che in quella piazza vive anche attraverso il mercato.

È un discorso tra sordi. Tempo fa cercai di raccogliere firme tra architetti di grido per fermare lo scempio e buona parte di essi, anche i più coscienti socialmente come Renzo Piano, obiettavano che l’ambulantato rovina la fruizione di molti luoghi pubblici. Allora non resta che rassegnarsi a una visione della città a misura di turista? Dobbiamo accettare che il senso di un luogo sia determinato da una sola componente estetica, quella dello sguardo? Eppure le città sono vive solo e fin quando vi sono odori e fumi, zaffate di zuccheri e carni ad arrostire, gente “che sta” e non solo gente che passa.

Il valore della multiestesia e della multifunzionalità consiste nel salvare l’indeterminatezza dei luoghi pubblici. In una poesia Patrizia Cavalli ci ricorda che il bello di una piazza è il suo vuoto disponibile, il non essere definita da monumenti o fontane ma da ciò che la gente vi inventa. E poi chi è occupato a perpetrare urbanicidi si basa su una ignoranza della storia stessa delle città. Venezia senza l’uso di campi e campielli non significa più nulla, Hanoi senza le venditrici di zuppa pho è l’immagine povera di una città strangolata da una lettura neocoloniale, Parigi senza Barbès e i mercati di strada è un incubo da milanesi con doppia casa. L’ignoranza consiste nel non afferrare che le mura e gli spazi sono l’effetto secondario della presenza di chi li abita: sono le folle e i gruppi di uomini e donne a determinare gli spazi che li avvolgono, non il contrario.

di Franco La Cecla