Sulla carta il soffio dello Spirito
Dopo Copernico e Keplero, dunque da almeno cinque secoli, non siamo più tolemaici per quanto riguarda il modello che abbiamo in testa del cosmo, non crediamo più che tutto ruoti intorno alla nostra Terra. Ma siamo ancora tutti profondamente tolemaici a proposito di quest’ultima senz’averne coscienza, poiché ancora la concepiamo come Tolomeo, nel II secolo dopo Cristo, ci ha insegnato a fare: come un unico, immenso spazio, come un’immane, gigantesca mappa, una faccenda composta da punti, linee e superfici.
Tolomeo, l’ultimo dei sapienti greci e suddito dell’Impero romano al tempo del suo massimo splendore. E abitava la più fantastica città mai esistita: Alessandria sul Nilo, dove tutte le fedi, le credenze, le filosofie dell’Africa, dell’Oriente e dell’Occidente s’incrociavano e si fertilizzavano a vicenda. Oggi chiamiamo Geografia il manuale con cui Tolomeo rivelò la tecnica per sottrarre una dimensione alla sfera terrestre e trasformarla in una bidimensionale rappresentazione cartografica. Con il crollo dell’Impero romano il testo sparì dall’orizzonte culturale occidentale (nel Medioevo in Europa si poteva leggerlo solo in Sicilia, nella traduzione araba), ma quando vi riapparve avviò l’invenzione dell’intera modernità, vale a dire la colonizzazione del mondo intero da parte del modello spaziale. Al punto che tutti i grandi poemi che segnano l’inizio dell’epoca sono incomprensibili senza il richiamo a quel che Tolomeo insegna e impone: la precedenza dello schema cartografico rispetto alla realtà, che per esistere ha una sola possibilità, conformarsi a esso. Impossibile, intendere l’Ariosto, ad esempio, e la furia del suo Orlando senza fare riferimento a questo. Si prenda il canto VI del poema. Giunto sull’isola di Alcina, Ruggero vorrebbe evitare la “bella città” che gli si para davanti, e che alcuni, aggiunge l’Ariosto, dicono frutto di “alchimia”. Quando all’inizio del Quattrocento a Firenze si trattò di tradurre in latino il testo tolemaico, appena tornato da Bisanzio, si scelse proprio un termine alchemico, “proiezione”, per indicare il procedimento di riduzione a mappa del globo: la più grande trasformazione che allora si potesse concepire, appunto analoga a quella che alla fine del processo consentiva all’alchimista di mutare il vile sasso in oro. E ciò a segno di come fin dall’inizio gli umanisti fossero in grado di comprendere la natura prerogativa e dirompente del metamorfico procedimento cartografico.
Per schivare la città, che da lontano sembra d’oro, e comunque troppo bella al punto da incutere sospetto, Ruggero piega a destra ma incappa in una “iniqua frotta” di creature mostruose che gli sbarrano il passo. Segue nel testo la precisa descrizione di tali difformi creature, capeggiate da un essere che ha corpo d’uomo e testa di cane. Sono esattamente le stesse creature, fantastiche e realistiche a un tempo, che ornano i bordi delle mappe a corredo, tra Quattro e Cinquecento, delle numerose edizioni del testo tolemaico. Come dire che la città di Alcina non è una vera città ma la rappresentazione cartografica di una città: per questo, come recita l’ottava 73 del VI canto dell’Orlando, «non entra quivi disagio né inopia / ma vi sta ognor col corno pien la Copia». Il che va inteso alla lettera. Nel poema “copia” è termine polisemico: in I, 44 vuol dire ad esempio dono, come in V, 47; in VI, 22 vale abbondanza; in IX, 13 sta per provvista. Ma soltanto nell’ultimo verso riportato per intero essa ha l’iniziale maiuscola, e sta evidentemente per mappa. Si faccia caso, per controprova, all’inizio dell’ottava in questione: «Non vi si sta se non in danza e in giuoco, / e tutte in festa vi si spendon l’ore: / pensier canuto né molto né poco / si può quivi albergare in alcun core». Tutto l’incanto della città di Alcina, proprio perché essa non è una città vera ma la mappa di una città, dipende dalla sospensione della successione temporale e del tempo narrativo, vale a dire da quella forma di sospensione che è costitutiva di ogni immagine cartografica. Ecco perché nei planisferi che accompagnano ancora nel Cinquecento le più lussuose edizioni del testo tolemaico i venti, che assumono la forma di teste alate, si affannano a soffiare sull’inerte ritratto cartografico della Terra ridotta a dispositivo geometrico: per riportarla in vita. Quei venti che, come la più antica tradizione di tutta la marineria adriatica insegna, altro non sono che il soffio dello Spirito Santo.