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Torino color cioccolata

​Fra nebbie e accoglienti caffè da cui usciva un sentore di cioccolata, Torino mi aspettava. Col pretesto di un convegno, in tre amici volevamo finalmente conoscere quella città un po’ misteriosa che ci incuriosiva, piena di fabbriche ma anche di ricordi e tracce della nostra storia recente.
Era una bellissima giornata, e il convegno non era attraente. Così, dopo molti sbadigli e chiacchiere e risatine sottovoce, decidemmo di uscire a passeggiare fuori, nel gelido scintillio del sole di dicembre, golosi di negozietti polverosi di vecchi libri e fermacarte, felici dell’insperata vacanza. Seguendo un profumo caldo di cioccolata e di pastafrolla, approdammo infine a una pasticceria sotto un grande arco antico, con velluti alle pareti e piccoli tavolini col piano di marmo.

Quel momento di felicità cioccolatosa ha tinto di un colore morbido, dai contorni seppiati, tutti i miei ritorni a Torino, che ho sempre raggiunto in treno, sulla lunga linea ferroviaria che attraversa l’Italia del nord: e ogni volta l’incanto si è rinnovato. Ci arrivo come dopo una lunga traversata di campi valli e colline, di castelli e città. Anche pochi giorni fa, ma dovevo fermarmi a Porta Susa e quell’arrivo distrusse ogni poesia, perché ogni mio viaggio deve terminare a Porta Nuova: stazione di testa, come Trieste dall’altro lato, sulla traccia di quella linea diritta che congiunge gli estremi, a est e a ovest.
Queste città sono le seducenti porte di regni stranieri. E conservano aspetti cangianti, mutevoli riflessi di mondi distanti. Torino (e anche Trieste) non è – come Venezia, Roma, Firenze – un luogo abitato da una storia di bellezza speciale, così particolare e assoluta che diventa essenza intoccabile, tendente all’eternità; è invece una meravigliosa, viva cornice, all’interno della quale ognuno può dipingere un suo volto della città.

Ci sono andata molte volte da allora. L’ho visitata nei suoi edifici e nei suoi mercati, ho visto la Mole, i Palazzi Reali, i castelli. L’ho attraversata durante una gigantesca tempesta estiva, con alberi che cadevano e torrenti d’acqua che ruscellavano lungo le strade. Il Museo Egizio mi ha accolto con suggestioni oscure, e fatto rivivere i sogni di quando volevo diventare archeologa e scoprire anch’io una tomba di Tutankhamon (ma mi sarei accontentata anche di Ur in Caldea). E la città piano piano mi ha rivelato il suo animo segreto: la sua ironia arguta e velata di buonsenso, la sua religiosità profonda e gelosamente difesa, la sua generosità operosa.

Nell’ampiezza delle sue strade e delle sue piazze, nei grandi austeri palazzi, a me – abituata a una stretta città medievale – è sempre parso di ritrovare un’immagine di forza massiccia e tranquilla, e il senso di una capitale e del suo destino.

 

di Antonia Arslan