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Un matrimonio a Palermo

​Era uno splendido inizio di settembre. Eravamo invitati a un grande matrimonio palermitano. Mio fratello, sempre entusiasta di fare da autista, progettò di arrivare fino a Napoli e di prendere là il traghetto per la Sicilia; e quindi io e lui cominciammo a insistere, finché Paolo, il più pigro di noi, sempre riluttante agli spostamenti, cedette. Ci mettemmo in viaggio, coi vestiti appesi all’interno della macchina e lustre scarpe da cerimonia pendenti dai finestrini. Quanto ai gioielli, tirai fuori lo spillone luccicante ereditato da zia Rosina, felice di potermelo infine mettere addosso.  Di mattina presto sbarcammo nel porto di Palermo. Io ero già stata in quell’affascinante, contraddittoria città, ma da studente di archeologia, in una primavera sgargiante, che abbelliva i monumenti, le strade e le vecchie case: e mi era sembrata malridotta.

Ma stavolta tutto cambiò. La città si aprì e si vestì a festa per il grande matrimonio. Tutti sorridevano alla loro principessina che andava sposa sul continente, e agli ospiti che erano convenuti da tutta l’Europa per festeggiarla. Lei era come nelle favole: alta bionda e bella, con un mento volitivo e occhi capricciosi. Lui era alto magro intelligente, con occhi sereni: la adorava, da sempre. E io li amavo entrambi, e volevo vederli felici.

Nel pomeriggio ebbi l’infelice idea di andare da una parrucchiera che mi costruì sulla testa un’orrenda e laccatissima torre di capelli, sicché ero di cattivo umore quando ci avviammo al ricevimento, e anche la spilla di zia Rosina non faceva una gran figura. Noi invitati camminavamo in fila sulla lunga strada, decorata con festoni colorati, preceduti e fiancheggiati da signori in livree ottocentesche. Dai marciapiedi, una folla guardava lo spettacolo, con aria soddisfatta. Entrammo in un grande portone dall’aria vecchissima, e là mi dimenticai di spille e capelli, perché mi trovai in pieno Gattopardo.

Mi riempii gli occhi di storia vivente, e di colpo compresi grandiosità e declino di quella elusiva città. Il palazzo veniva aperto per la prima volta dopo decenni, a causa di una lite ereditaria. C’erano sale con antichi damaschi e sete polverose, specchiere e divani su cui fluttuavano fantasmi benigni; ma due cose si unirono nella mia mente per sempre, i colori dolcissimi, carezzevoli, del trionfo di gelati nelle forme dei frutti dell’isola, continuamente sciolti e rinnovati su un enorme vassoio rettangolare, e l’austero bagno che un antenato cosmopolita si era fatto fare in Inghilterra intorno al 1880: con moderni apparecchi sanitari, serviti da acqua corrente calda e fredda, in un tripudio di cuoio e cristallo. Tutto sembrava rimasto intatto, ma tutto era prossimo a sfaldarsi in definitiva, impalpabile polvere.

di Antonia Arslan