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Tra il vuoto e l’essere il Calvario dentro di noi

​Giovanni Gazzaneo

Il Golgota siamo noi. I Suoi passi affaticati e quelli degli aguzzini. Assassini e vittime, traditori e santi. Noi Sua immagine eppure così lontani, deboli, distratti, infedeli, banali e peccatori.
Il Golgota siamo noi. Crocefissi anche quando non sappiamo di esserlo. Nella radice del nostro essere quotidiano-infinito: orizzontali e verticali insieme, un quasi niente chiamato a essere per sempre.
Il Golgota siamo noi. In questo peregrinare sempre in salita, tra le grida del dolore innocente, i morsi della fame e della sete, il sangue e le rovine della guerra, il virus che lascia senza respiro, la paura che schiaccia la libertà.
Il mistero si apre non di fronte a noi, ma dentro di noi: il mistero del male, quel non essere che affligge lo spazio e il tempo, i corpi e le menti, e perfino l’eternità che ci abita, l’anima, quel filo sottile che unisce il nostro cuore al cuore di Dio.
Scrive Georges Bernanos: «Non si può vivere fuori del reale. E il reale, il concreto della vita, non sono alcuni istanti di esaltazione sensuale o intellettuale, o anche di vaga religiosità, ma è quello strato profondo del dolore che all’improvviso scaturisce alla superficie, come l’acqua di un fiume sotterraneo». Il dolore ci appartiene, noi apparteniamo al dolore. C’è un solo modo per esserne padroni: accettarlo, dire il nostro sì, perché è parte di noi, senza per questo essere il nostro destino, la parola ultima.
Il dolore innocente è il grande scandalo della storia degli uomini. Origine della domanda radicale, quella tante volte gridata nelle innumerevoli notti dell’umanità, la domanda che ammutolisce i sapienti e mette alla prova i santi. Racconta Elie Wiesel del­l’impiccagione di un ragazzo ad Ausch­witz: «Dietro di me sentii il solito uomo domandare: “Dov’è Dio?”. E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”». Al cuore di quel dolore, del perché senza risposta, c’è la verità del silenzio. Il silenzio di Cristo, in cammino verso il Golgota, si interrompe solo di fronte al pianto delle donne: «Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli» (Lc 23,28). Sulla croce ancora silenzio, fino al grido ultimo che sempre si ripete nel buio della storia e delle nostre storie: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Come può il figlio di Dio essere abbandonato dal Padre? Come può spezzarsi l’unità? Come si può uccidere Dio? Da ragazzo non riuscivo a comprendere la ragione per cui Gesù avesse offerto la sua vita per noi, perché il suo amore per gli uomini avesse richiesto il sacrificio estremo della Passione. Ero come i cristiani dei primi secoli, incapaci di dare immagine allo scandalo, alla vergogna della croce. Poi con l’età della ragione ho iniziato a percepire l’orrore del male, la sua insensatezza, il caos che distrugge l’armonia e la bellezza dell’essere… Il peso della croce è il peso di tutti i peccati, da Adamo all’ultimo uomo che vedrà la luce di questo mondo. E Cristo apre le braccia a tutto questo, e l’abisso di peccato lo dilania fino a strapparlo alla vita. «Al crimine contro l’Amore – scrive Ber­na­nos –, l’Amore risponde secondo il proprio stile e la propria essenza: con un dono totale, infinito. Dove si compirà l’unione del creatore e della creatura, della vittima e del boia? Nel dolore, che è comune a entrambi. Noi siamo nel cuore di questo dramma immenso, siamo nel cuore della Trinità».
Il Golgota siamo noi. Oggi come allora anche noi passiamo di là e, con i farisei, scuotiamo il capo alla ricerca di un segno: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt 27,40). Eppure sotto i loro e i nostri occhi si manifesta il segno più gran­de, ma non vogliamo o non possiamo vederlo: l’innocente muore per tutti i figli d’uomo. Nel darsi di Dio sulla croce, nel­l’es­sere tutt’uno col dolore e con la morte, l’amore raggiunge il suo vertice perché il Signore della vita dà la sua vita.
Il darsi di Dio, il suo darsi fino alla fine è per ciascuno di noi, per questo nostro essere alle soglie dell’Eterno e insieme dell’abisso, sempre in bilico tra il vuoto e l’essere. Non è questione di equilibrismo. È molto di più: è l’avventura della vita.