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Giovanni Berengo Gardin, storie di uomini e di sguardi

Il grande fotografo racconta sessant’anni sempre sul campo

​Giovanni Gazzaneo

Il movimento della vita. Ecco cosa scorre nelle immagini di Gianni Berengo Gardin, decano della fotografia italiana.
Diceva Henri Cartier-Bresson, uno dei suoi maestri: «L’uomo. L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. Grandi artisti […] si dedicano soprattutto all’elemento naturale, geologico, il paesaggio, i monumenti. Io invece mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta». L’uomo è al centro anche dell’orizzonte di Berengo Gardin, che a differenza del fotografo francese non ama andare di fretta, perché il suo desiderio è di entrare in rapporto con le persone che incontra e con il loro mondo. E vuole raccontare tutti gli aspetti della vita, a partire dall’avventura del quotidiano: il lavoro e il gioco, la solitudine e la relazione, la bellezza e il dolore, la gioia e l’attesa. Berengo Gardin è mosso dall’amore per la realtà, per tutta la realtà, e di questa vuole essere testimone. Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, origini veneziane, milanese di adozione, ha firmato 262 libri e il suo archivio conta oltre un milione e mezzo di negativi. Il Maxxi gli dedica una grande mostra dal titolo “L’occhio come mestiere”.

Può raccontarci il suo primo incontro con la fotografia?
Nell’autunno 1943 vivevo a Roma e i tedeschi avevano dato l’ordine di consegnare armi e macchine fotografiche ai commissariati di quartiere. Prima di portare loro la macchina di mia madre ho scattato un po’ di foto ai cartelli stradali in lingua tedesca, quasi come una sfida ai nazisti. Poi solo nel 1953 ho ripreso a fotografare. Allora mi interessavo di aviazione, scrivevo di aerei militari italiani e per documentare i miei articoli ho cominciato a fotografarli. Il passo successivo è stato a Venezia, dove frequentavo il famoso circolo fotografico La Gondola, diretto da Paolo Monti. Ho cominciato a fotografare con qualche velleità artistica e devo dire che mi vergogno di quelle foto, per me non dicono nulla.

Tra il 1953 e il 1954, durante il suo periodo parigino, conosce i grandi maestri francesi. Ci può dire perché Willy Ronis è stato così importante per lei?
Ero un pessimo studente e mio padre che era molto severo (non come quelli di oggi che mantengono i figli fino a quarant’anni) mi ha detto: se studi ti pago l’università, altrimenti trovati un lavoro. E così a ventitré anni cercai un impiego a Parigi. Prima come cameriere e poi, per due anni, alla reception di un grande albergo. Lavoravo dalle cinque di mattina a mezzogiorno. Grazie a quei pomeriggi liberi ho girato per ogni dove e ho conosciuto Parigi meglio di qualsiasi altra città. E ho incontrato e conosciuto tutti i grandi fotografi: Doisneau, Masclet, Ronis... Robert Doisneau non mi piaceva. Tutte le sue foto più famose sono costruite: metteva in posa gli amici e gli amici degli amici, come in un set cinematografico, e questo sinceramente non mi interessa. Ronis invece era un grande maestro del reportage. Agli inizi gli facevo da portaborse e poi siamo diventati amici e così, quando giravo con lui, fotografavo con lui e da lui ho imparato tutto: tecnica, contenuto, modo di fotografare. Mi definiscono il Cartier-Bresson italiano. In realtà sono il Willy Ronis italiano.

E con Cartier-Bresson che rapporto ha avuto?
Non l’ho conosciuto nei miei anni parigini, ma dopo, grazie a Ferdinando Scian­na, a cui mi lega una profonda amicizia. Con Cartier-Bresson ho condiviso il grande interesse per l’uomo in tutti gli aspetti della vita. C’è un episodio che vorrei raccontare. Eravamo ad Arles e mi ha chiesto se avevo visto il suo libro sul Messico, fresco di pubblicazione. Gli risposi di no. Allora è entrato in una libreria e l’hanno subito riconosciuto. E non volevano che pagasse. E lui: “Ma io non posso regalare un libro che non ho comprato”. C’è stata una vivace discussione. Alla fine ho ricevuto il mio regalo con questa dedica: “A Berengo con simpatia e ammirazione”. In quel momento ero così felice che potevo anche morire, perché avere l’ammirazione di Cartier-Bresson era il massimo per me. Una stima che volle confermare nella mostra sulle novanta foto che lo avevano più colpito nella sua vita, mostra in cui erano presenti solo quattro italiani: Giacomelli, Scianna, Zizola e il sottoscritto.

Le immagini dei giovani sulla spiaggia di Malamocco, nel 1958, possono essere considerate l’inizio del suo percorso fotografico?
Sì, sono le prime foto realizzate con la Leica, che avevo acquistato a rate proprio quella mattina. Così sono andato al lido di Venezia per provarla e ho avuto la fortuna di incontrare questo gruppetto di ragazzi e ragazze: erano tutti belli e molto fotogenici, con quel loro enorme grammofono a manovella con cui ascoltavano musica e ballavano. Cartier-Bresson afferma che il fotografo deve essere invisibile, ma io non ci sono mai riuscito. Cerco di entrare in rapporto con coloro che fotografo. E quando è possibile mi fermo a parlare. Ma sempre dopo che ho realizzato le immagini, altrimenti le persone perdono quella naturalezza che per me è essenziale.

Quando e come ha compreso che la fotografia poteva essere per lei non solo una passione ma il suo lavoro, la sua vita?
Grazie allo zio d’America: Fritz Redl, psichiatra. Lui era amico di Cornell Capa, fratello di Robert, il grande fotografo. Agli inizi degli anni Sessanta selezionò alcuni libri della Farm Security Administration - con le immagini di Dorothea Lange ed Eugene Smith - e di fotografi di “Life”, e me li spedì. Quelle foto mi hanno aperto gli occhi e ho compreso che potevo fare il professionista. Avevo un buon lavoro a Venezia, una famiglia con due figli, ma ho rischiato perché avevo compreso che con la fotografia potevo esprimermi. Così ci siamo trasferiti a Milano per realizzare un sogno: poter raccontare con le immagini certe mie idee. Sono molto timido, sono di poche parole e ho difficoltà di linguaggio. Con la fotografia ho capito che potevo comunicare con gli altri molto bene.

Per lei il bianco e nero aiuta a cogliere meglio l’essenziale, il cuore delle cose, la centralità del soggetto?
Io nasco con la televisione in bianco e nero, il cinema in bianco e nero. Tutti i miei maestri sono stati fotografi di bianco e nero e non potevo che essere fotografo di bianco e nero. Indubbiamente il bianco e nero per il genere di cose che faccio è molto più efficace. Il colore distrae sempre il fotografo quando realizza i suoi scatti, così come distrae chi guarda l’immagine, attratto più dal colore che dal­la figura. Se fotografo una persona con il pullover rosso, lo sguardo viene catturato dal pullover rosso piuttosto che dal volto di chi ritraggo. Invece con il bianco e nero è il volto a catturare lo sguardo.
Ha lavorato per “Il Mondo” di Mario Pannunzio: quali erano le tematiche  che caratterizzavano il giornale?
Pannunzio aveva le idee molto chiare: non voleva foto di principesse, di attori, di coloro che erano i soggetti principali delle riviste di allora, ma chiedeva di raccontare la vita di tutti i giorni. E la vita quotidiana era al centro dei miei interessi. Diceva: “Mi piacciono le foto che raccontano la provincia italiana”. Eravamo usciti dalla guerra, c’era una gran voglia di ricostruzione in tutti i campi, sia materiali che culturali. Nel boom della rinascita si percepiva il grande entusiamo della gente. Un entusiamo che oggi non c’è.

Ha collaborato con grandi aziende come Olivetti, Fiat, Alfa Romeo, Italsider, e questo le ha permesso di raccontare il mondo del lavoro come pochi altri, ma anche di realizzare progetti e libri di grande respiro. Come è nata e come si è sviluppata questa collaborazione?
Più di tutti ho lavorato per Olivetti, una collaborazione lunga venti anni. Ho fotografato la fabbrica, gli oggetti, i prodotti, le linee di montaggio, gli operai. Ma anche tutto quello che quell’uomo eccezionale che era Adriano Olivetti aveva realizzato per i suoi operai: le case, i luoghi di vacanza, gli asili… Nella fabbrica a Scarmagno sono rimasto impressionato nel vedere il cameriere che passava con il carrellino e offriva il caffè agli operai: credo non succedesse in nessuna altra fabbrica, almeno in Italia. Il fatto che fotografassi molto per Olivetti ha contribuito alla mia fama di fotografo. Pensavano: se lo chiama Adriano deve essere molto bravo. E si sono aperte le porte di Ferrari, Italsider e tanti altri...

Ha collaborato a lungo con De Agostini e Touring Club, e questo le ha permesso di conoscere bene l’Italia, non solo le grandi città, ma i borghi e le aree rurali, e di realizzare diversi volumi. Cosa ci può raccontare di quelle campagne fotografiche?
Non ho mai lavorato per i giornali italiani, tranne “Illustrazione italiana” e “Il Mondo”. E non so ancora spiegarmi il perché. Ed è questa la ragione per cui mi sono concentrato sui libri. De Agostini e Touring mi hanno permesso di realizzare importanti campagne fotografiche in tutta Italia, soprattutto quella a torto considerata minore. Ho conosciuto bene la civiltà rurale ormai scomparsa. Un mondo dove si mieteva ancora con la falce. Faccio parte di quella generazione, una generazione forse troppo lenta. Eppure mi domando a cosa serva questa accelerazione che ci troviamo a vivere, e a subire, oggi. Non dico che sia meglio o peggio. Dico solo che io appartengo a un mondo altro.

Chi sono gli artisti, i poeti, gli scrittori con cui ha più dialogato, e in cosa l’hanno aiutata nel suo sguardo sulla realtà?
Sono stato amico degli artisti veneziani, di Tancredi, di Santomaso… E tanti li ho conosciuti grazie alla frequentazione con Peggy Guggenheim. Con Vedova sono stato amico di lunga data e con lui ho partecipato alle contestazioni del Sessantotto, che ho anche documentato. Tanti sono gli scrittori che ho cosciuto anche perché hanno firmato i testi per i miei libri: da Mario Soldati a Giorgio Bassani, a Cesare Zavattini, ad Alberto Moravia. Ho cercato di imparare da tutti coloro che ho incontrato. Soldati mi consigliava le letture giuste. Da Renzo Piano, con cui ho lavorato per quindici anni, ho imparato a vedere l’architettura, a capirla.
Lei ci ha anche mostrato ciò da cui cerchiamo di distogliere lo sguardo: la follia, l’emarginazione, la fragilità. Ha documentato le condizioni inumane dei manicomi grazie alla collaborazione con lo psichiatra Franco Basaglia, ma anche l’emarginazione sociale e scelte di vita lontane dai nostri modelli, come il nomadismo degli zingari. Cosa l’ha spinta a voler raccontare queste vite ai margini? Le persone con problemi mentali e le comunità rom l’hanno aiutata a comprendere meglio l’uomo e le relazioni sociali?
Fin dall’inizio mi interessava l’aspetto sociale della fotografia e cercavo in alcuni casi di denunciare situazioni che trovavo ingiuste. Nei manicomi non ho mai fotografato la malattia, ma con il mio obiettivo volevo documentare le condizioni, spesso inumane, in cui venivano relegati i malati di mente. E così ho voluto fotografare anche gli zingari e il loro mondo, le grandi navi nei canali di Venezia, il turismo di massa…
Il suo metodo mi pare una sorta di avvicinamento, dall’esterno verso l’interno: il paese o la città, le strade, i luoghi della vita e del lavoro, la famiglia… Al centro della sua narrazione c’è sempre l’uomo. E questo suo desiderio di abbracciare tutto (pubblico e privato, esterno e interno) ci fa capire che il cuore delle cose è sempre e comunque dove l’uomo è presente. Lei ha fatto della fotografia uno strumento, un metodo, un racconto per conoscere l’uomo e comunicare la ricchezza e la bellezza del suo essere. I suoi libri non sono in fondo dei racconti in immagini?
Sì, per me è come scrivere un romanzo, ma un romanzo tutto radicato nella realtà delle cose: uso la macchina fotografica per scrivere, per comunicare, per raccontare agli altri le mie sensazioni, quello che vedo, quello che sento.

E qual è la ragione del timbro che appone ormai da diversi anni dietro le sue stampe: “Vera fotografia”?
Voglio sottolineare che fotografo ancora con la pellicola e continuerò a farlo. La mia non è tanto una battaglia contro la tecnologia digitale, quanto piuttosto contro l’uso, o meglio l’abuso, di Photoshop, contro questa moda di modificare la realtà e di far passare per vero qualcosa che vero non è. Non è più realtà se aggiungo un palo o tolgo un palo, se aggiungo un’auto o la levo, se creo un cielo di un colore che non ha nulla a che fare con il cielo che ho fotografato. Quella non è più una foto ma è un’immagine. Chiedo solo che si abbia l’onestà di dirlo.

Ha raccontato due mondi che hanno visto il tramonto: prima la civiltà contadina (con i suoi riti, il legame tra cielo e terra, le relazioni sociali e solidali forti, la fede condivisa…), poi il mondo operaio (con i ritmi disumanizzanti della catena di montaggio, le rivendicazioni sociali, le lotte politiche…). Lei si sente un testimone?
Sì, un piccolo testimone. Tutta questa fama che ho, me l’hanno attribuita altri. Sono quel che ho voluto essere: un fotografo documentarista, le mie foto sono documenti e non altro. Le buone fotografie le fanno i fotografati, per come sono e per come agiscono. Il merito è soltanto loro. Al centro del mio lavoro è l’interesse per l’uomo. Non faccio mai ritratti, ma fotografo le persone nel loro ambiente: dove vivono, dove lavorano, dove vanno in vacanza. Credo di aver fotografato, in questi sessant’anni, sempre allo stesso modo, mi è connaturale. Non ho seguito le mode, sono rimasto fedele agli insegnamenti dei miei tanti maestri, di Cartier-Bresson e di Ronis. E a loro e a questa lunga e intensa vita sono grato.
“Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere”. A cura di Margherita Guccione e Alessandra Mauro. Mostra in collaborazione con Contrasto. Maxxi. Fino al 18 settembre. Catalogo Contrasto. Info: maxxi.art