Le stimmate di san Francesco nell'arte
La prima raffigurazione delle stimmate risale a pochi anni dall’evento. Le interpretazioni di Giotto, Gentile, Van Eyck, Barocci
Elena Pontiggia
Non ci hanno messo molto gli artisti a dipingere le stimmate di san Francesco. Una delle prime rappresentazioni del tema, se non la prima, si deve al cosiddetto Maestro della Croce 434, che raffigura l’evento prodigioso fra il 1240 e il 1250, dunque solo ventisei - o addirittura sedici - anni dopo i fatti. È una rapidità significativa, se pensiamo che la prima rappresentazione della Crocifissione che mostra il Redentore inchiodato a una croce (ma il patibolo non si vede, come non si vedono i chiodi) è del V secolo. Ci sono voluti quattrocento anni, più o meno, per affrontare - e in modi ancora edulcorati - un soggetto così scandaloso e inconcepibile. Altro che considerare il Vangelo un’invenzione umana…
Per il miracolo delle stimmate i tempi sono invece brevi. Dello sconosciuto pittore, però, sappiamo solo che era attivo a Firenze intorno al 1230, ma si era formato in ambito lucchese e probabilmente era stato allievo di Berlinghieri. Nella tavola dipinge san Francesco con le ferite dei chiodi evidenti e tre raggi d’oro che partono dall’aureola e lo collegano al Crocifisso in forma di serafino. Rispetto alle figure ieratiche e immobili delle icone bizantine il Maestro dipinge Francesco nel vivo dell’azione, anche se di un’azione stilizzata e semplificata. Come in tutto il Medioevo, poi, la rappresentazione della natura è mentale, non naturalistica, e dietro di lui vediamo il monte della Verna nel Casentino (donato al Poverello come eremo dal conte Orlando Cattani) non come è realmente, ma come una sequenza di tre piramidi sovrapposte. Il numero tre ritorna nella composizione, oltre ai raggi d’oro, anche nei rami dell’albero: ritorna per motivi ritmici e armonici, ma forse con un’allusione alla presenza della Trinità. La cappella alle spalle di Francesco è invece la piccola chiesa di Santa Maria degli Angeli. La tavola, conservata agli Uffizi, è una delle poche immagini del santo sopravvissute all’“iconoclastia” del 1266, quando il Capitolo generale francescano deliberò di distruggere tutte le ricostruzioni biografiche del Poverello.
Una trentina di anni dopo, invece, Giotto dipinge Le stimmate di san Francesco, 1295-1300, ora (per colpa di Napoleone che fece sottrarre l’opera alla chiesa di San Francesco a Pisa) conservata al Louvre. La vegetazione, qui, è più vicina alla natura rispetto alla tavola del Maestro della Croce 434, anche se nel monte scheggiato e nelle architetture più piccole della figura rimangono vive le convenzioni bizantine. Quello che più colpisce è però la monumentalità del Poverello, che non è prosciugato dai digiuni, ma ha una sagoma potente, come se pesasse almeno un quintale. Quello che interessa a Giotto, in realtà, è mostrare la concretezza del corpo umano ( la sua “plasticità”, dicono gli storici dell’arte), cioè la sua massa e la sua tridimensionalità, come se davanti a noi ci fosse una persona vera. Anche il maestro toscano, insomma, eleva un suo Cantico delle Creature, mostrandole il più possibile per quello che sono, non secondo grafie stilizzate.
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