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Beatrice il dolore e la grazia

​In quei giorni di fine giugno mi sentivo un po’ perplessa - anche un po’ angustiata. Cercavo un’amicizia da raccontare; ma c’erano nella mia memoria solo nomi che continuavano a sfuggirmi, evanescenti; oppure mi appariva davanti una persona, un panorama, un ricordo che subito dopo sbiadiva, e infine scompariva del tutto, svanendo nel nulla. Io continuavo a cercare... senza accorgermi che avevo già, vicino a me, una bella persona, un’amicizia nuova che negli ultimi mesi era germogliata con vigore: un alberello che aveva messo in me foglie e fiori, e mi stava già dando frutti di gioia e profonda emozione, impetuosamente. In realtà, mi sarebbe bastato osservare bene intorno a me: e ieri, quando ho rivisto Beatrice e questo mi ha resa felice, tutto mi è divenuto chiaro. Riabbracciare dopo quindici giorni una persona con cui ti sei sentita un po’ sorella e un po’ madre, hai potuto chiacchierare senza annoiarti per ore - e perdipiù in un ospedale - e sentire quanto ti era mancata la sua presenza, è di per sé un dies albo signanda lapillo, un giorno fausto, di quelli da segnare con la pietruzza bianca, come sentenziavano sia i romani che la bravissima e impavida suor Maria Rosaria, che in prima media ci insegnava il latino a suon di proverbi da imparare a memoria, minacciando fantasiose punizioni.
Perché Beatrice sa, prima di tutto, ascoltare e portare conforto. E ha un sorriso lento, che si diffonde sul suo visetto un po’ alla volta, si estende poi su tutti i lineamenti, e infine diventa solare. Viene - e non sembra un caso - dalla “Marca Zoiosa”, come veniva chiamata nei secoli antichi quella meravigliosa parte del Veneto che è la zona di Treviso, già allora celebre per dolcezza del clima, buon vino e festevoli usanze.
Porta in sé la generosa, e insieme pratica, acuta indole veneta; ma è una giovane donna vera, cosciente, che non ha bisogno di forzarsi a dimostrare alcunché, perché sente intorno a sé la vita fluire in armonia col suo essere (e non in contrasto, come spesso ho visto accadere, e quante volte avrei voluto farglielo capire, a certe giovani donne troppo arrabbiate col mondo che le circondava!). La sua sola presenza, quasi a sua insaputa, trasmette invece un incantevole effetto di forza e di grazia.
Beatrice vive e lavora a New York, dove si è ambientata benissimo, col marito - un simpatico, intelligente orso di Amburgo - e la figlia, la giovinetta Ada. Ci incontravamo all’ospedale. Lei era sempre puntuale. Io mi sentivo chiamare prima di vederla apparire - e subito fioriva il suo sorriso, e tutto si illuminava. Poi andavamo a prenderci la cioccolata calda (perfino di discreto sapore...) che l’ospedale offre insieme a certi malinconici biscottini: e poi, sulle rigide poltroncine dai colori improbabili, ci facevamo meravigliose chiacchierate.
Un giorno di maggio aspettavamo insieme che la nostra comune carissima amica terminasse un esame (che doveva fare in anestesia totale). Ma improvvisamente invece di lei si palesarono due chirurghi, bardati di tutto punto, annunciandoci che era sopravvenuto un importante arresto cardiaco, e l’amica era finita in rianimazione. E fu allora che io mi appoggiai davvero a lei - e lei a me: e in quelle dure ore di attesa sentimmo entrambe la forza profonda della vicinanza di affetti e di pensieri che ormai ci legava.