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Caterina e l’arte delle orecchiette

​Antonia Arslan

Si chiamava Caterina Dagnessa. Era arrivata a Padova con i genitori e la sorella da Foggia, quando il padre, direttore di un ufficio postale, si era trasferito nel Veneto. Si erano ambientati bene, avevano conosciuto gente simpatica, come mia suocera Elsa, che aveva fatto amicizia soprattutto con la figlia più giovane, Caterina: una donna spavalda e insieme affettuosa, tenera con le persone che amava e con una passione sfrenata per i processi, soprattutto se si trattava di fatti di sangue passionali e sfrenati, con tradimenti, donne fatali, uomini gelosi e cupi rancori.
Industriose e abilissime, le sorelle Dagnessa si erano cucite, negli anni, splendidi corredi di nozze, conservati in due capaci cassapanche col loro nome inciso sopra: lenzuola ricamate per l’inverno e per l’estate, con le federe assortite, squisite camicie adorne di pizzi elaborati, vestagliette colorate, canovacci con le iniziali leggiadramente intrecciate, deliziosi grembiuli, e quant’altro avessero scovato nelle riviste specializzate.
Ma, mentre la tranquilla sorella minore si sposò presto con un placido impiegato dal buon sorriso, Caterina – pur trovando molti corteggiatori – non arrivò mai al matrimonio. La cosa non la disturbava particolarmente; quello che la “impicciava” (usando la sua frequente espressione) era il corredo. Non sapeva che farsene; le metteva soltanto malinconia, come il vivere in casa della sorella, che amava ma che la annoiava non poco.
E fu così che decise di venire a lavorare da noi, appena sposati, più come una vicemadre un po’ impicciona che come una colf. Credo che – oltre all’amicizia con mia suocera – la convinse il fatto che abitassimo molto vicino al tribunale: avrebbe potuto andarci quando voleva e assistere ai processi più promettenti con molta più facilità che partendo da casa sua.
Visse da allora con noi, ogni giorno fino alle quattro del pomeriggio (ma gli orari variavano abbastanza, secondo i suoi umori). Imparammo a mangiare pugliese, la pasta con tutte le verdure possibili, le cime di rapa e le mitiche, deliziose polpettine, ma soprattutto le orecchiette, delle quali non si poteva assolutamente prevedere l’arrivo: dipendeva da tante minime cose, dal sole e dalla pioggia, dalla stagione, da mille casualità che incrociandosi determinavano il sospiratissimo “giorno orecchiette”.
Non dimenticherò mai la danza abilissima delle sue dita e della forchetta nel creare la fila di piccoli soli rotondi di pasta, e la concentrazione quasi religiosa che li faceva sbocciare uno vicino all’altro sul vecchio tavolo di marmo, davanti ai nostri occhi ammirati che pregustavano il fiume rosso di pomodoro e il frizzante sapore del parmigiano che li avrebbero coronati nei piatti. Ci prendeva – a me, a Paolo e alla bambina Cecilia – un’allegria corposa e benefica che trascinava con sé noie e cattivi pensieri e ci faceva venir voglia di allargare la tavola e portarci gli amici.
Ma un brutto giorno si scoprì che aveva il diabete. Lei non lo accettò, amava troppo i dolci: e così cominciarono anni di prediche da parte nostra e di tentativi di nascondere la marmellata e i biscotti. Non ci riuscimmo: e la nostra meravigliosa Caterina se ne andò dopo un giovedì di carnevale in cui aveva assaggiato (per confrontarne il sapore) tutte le migliori frittelle della città.