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I tappeti armeni e il fuoco di Los Angeles

​L’automobile si arrampicava lentamente su per la collina. Uno scosceso pendio occhieggiava sulla sinistra della strada, che era senza parapetti, anche se lungo il percorso era stata sistemata una graziosa bordura di sassi ornamentali colorati. La parte finale, prima di arrivare – con un mio profondo sospiro di sollievo – allo spiazzo davanti alla casa del nostro ospite, era addirittura pavimentata con ceramiche dall’elegante disegno.
La nostra meta appariva bizzarra e un po’ incongrua nella sua struttura, massiccia di fondo ma ornata con una profusione di decorazioni pseudo-rococò, e circondata dalle visibili e paurose tracce del grande incendio che aveva devastato nei giorni precedenti quei sobborghi di Los Angeles. Le case americane sono costruite con tanto legno, gli incendi sono frequenti e molto temuti, e i bambini sono addestrati fin da piccoli a reagire velocemente e con ordine di fronte alla minaccia del fuoco: ma lo spettacolo della dimora del signor Hratch, celebre mercante e collezionista di tappeti, che ci aveva invitati ad ammirare la sua raccolta, ci lasciò senza parole.
Ci aspettavamo una specie di museo, con l’aria e l’aspetto solenne di un museo. Invece ci accolse sulla soglia un omino che pareva uno gnomo indaffarato e gentile, con le mani sporche di fuliggine e l’aria beata. Ci mostrò subito, orgogliosamente, una splendida e lucente Harley Davidson con sidecar, e disse: «La guido io, quando vado in giro a far vedere tappeti, o a portare cibo ai bambini di cui mi occupo. Nel sidecar ci stanno tante cose!»
Tutto intorno, il terreno era bruciato e arso, la vegetazione scomparsa, le abitazioni distrutte. Una cassettina per la posta pendeva sbilenca in mezzo al nulla, una singola lampadina oscillava su un palo poco lontano. Ma l’omino era solo felice che, per qualche misterioso capriccio del vento, il fuoco avesse risparmiato la sua casa: e soprattutto quello che ci stava dentro, i suoi meravigliosi tappeti. «Volevano farmi sgomberare – ci disse – ma io non potevo abbandonarli. In loro c’è tutta la storia degli armeni, la nostra forza, il nostro coraggio. Sarei morto con loro, se il fuoco ci avesse raggiunti». E non scherzava. Capimmo subito che il suo discorso era mortalmente serio: partendo dal nulla, aveva dedicato tutta la vita al commercio e allo studio dell’arte del tappeto, diventandone uno dei massimi esperti.
Mostrava la sua collezione pezzo per pezzo, dai frammenti degli esemplari più antichi che accarezzava con mano leggerissima, ai pezzi grandiosi, tessuti secolo dopo secolo per gli scià di Persia, gli zar di Russia o i magnati americani. E di ognuno ragionava come se l’ignoto artigiano armeno che l’aveva creato in lunghi mesi pazienti di ispirato lavoro fosse un suo amico, conosciuto al mercato di Isfahan o di Trebisonda. E ne cercava le lettere dell’alfabeto (o le frasi intere) nascoste in mezzo ai tanti simboli intrecciati, ognuno dei quali parlava poi un suo proprio linguaggio, diverso e personale, come fosse una firma, una cifra appena percepibile. Ascoltandolo, cominciavamo a entrare in un magico mondo di draghi e di giardini segreti, in un orientale mondo di dolci inganni. «Segui il tappeto, siediti sul tappeto – mi disse alla fine – quando vuoi viaggiare all’interno di te stessa. E dopo, puoi dormire tranquilla».

di Antonia Arslan