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Sorprese tra i giardini di Londra

​di Antonia Arslan

Non pioveva, a Londra, in quella fresca mattina di aprile. Si inseguivano nel cielo nuvole gonfie di vento in tante sfumature di grigio, da un acciaio scuro sull’orizzonte a bioccoli chiarissimi sui bordi, che sfumavano in un lucido azzurro di stoviglia. Eravamo arrivati la sera prima dagli Stati Uniti, e dormimmo di gusto, finché non ci svegliò la fame.
Così ci avviammo un po’ a caso, finché vedemmo dall’altra parte della strada un’insegna molto allettante, The Muffin Man. Dalla porta uscivano folate di profumo di caffè e nella piccola vetrina occhieggiavano torte, ovviamente dei muffin gonfi e dorati nei loro cestellini di carta, scones e caraffe dai colori invitanti. C’era ancora un tavolino libero, giusto nell’angolo, e io mi mangiai molte cose graziose, innaffiate da tante tazze di tè.
Un tipico posto inglese: ma forse troppo inglese... Le proprietarie, si scoprì in fretta, erano due belle ragazzone polacche, che stavano accumulando denaro per fare il grande balzo ed emigrare in America. «Non vogliamo arrivare là senza soldi – ci raccontarono – e cominciare proprio da zero. Qualche anno qui ci permetterà di guardarci intorno senza fretta». Determinate e sorridenti, quando l’amica poliglotta che era con me si mise a cantare le prime frasi del loro inno nazionale, si commossero molto, ma non le fecero lo sconto che lei si aspettava. «Ogni sterlina è preziosa per noi», dissero con aria serissima, accompagnandoci alla porta.
Eravamo un pochino perplesse ma di ottimo umore, e avevamo ancora un po’ di tempo prima del nostro appuntamento. Improvvisamente, la mia amica mi chiamò per farmi vedere il grande arco di glicini in fiore che univa due case ad angolo in fondo alla strada. Ero incantata. Le pergole di glicini hanno segnato la mia infanzia; sotto un tetto viola coi grappoli pendenti mio nonno mi raccontò la sua storia e la tragedia della sua famiglia.
Ma sotto la cascata di fiori dietro la cancellata si intravedeva un campaniletto costituito da sette esili colonnine sormontate da lastre di pietra sagomate: una struttura tipicamente armena, che sembrava fuori posto in mezzo alle grandi case di quel quartiere di Londra. Sotto, una piccola chiesa. «Mi sembra greca», azzardai, ma la mia amica si mise a ridere e disse: «Non riesci a vedere che è proprio armena?». In fretta, facemmo il giro dell’intero isolato. La visione sembrava sparita, e io, pessimista, già pensavo che fosse invisibile, inclusa all’interno di uno di quei palazzoni, quando improvvisamente comparve un giardino fiorito, e nel mezzo la chiesa, inequivocabilmente armena e dedicata a san Sarkis.
Camminavo come in sogno. In quella data così vicina al “giorno del ricordo” armeno del 24 aprile, ero a Londra per un incontro su quel tema; ed ecco, ero “per caso” arrivata in uno di quei posti dove – come in tutto il vasto mondo – questo popolo in diaspora ha portato le sue memorie, costruito chiese e luoghi di incontro, scuole e biblioteche per conservare l’antica lingua dei padri. E dove il viandante viene accolto con le parole antiche, e subito gli si chiede da dove proviene la sua famiglia, da quale delle mille città e villaggi scomparsi ha preso il via la sua strada nella vita. E vicino alla chiesa c’era naturalmente la biblioteca, dove ci aspettavano Susan e Gagik, i nostri ospiti.