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Una gita in treno nel sole sognando Venezia

​Aspettavo un treno per Venezia. Era un regionale di quelli che noi chiamavamo i treni del latte, per un vecchio gioco di parole di nonna Virginia sui bidoncini col latte di giornata che a ogni stazione venivano consegnati al controllore per essere recapitati alla Latteria Cooperativa della valle, qualche fermata più in là. Tempi di lente littorine, tempi del mitico vagone panoramico della ferrovia di Calalzo, che sobbalzava molto allegramente in fondo al treno, ma era dotato di una meravigliosa e durissima panca circolare sormontata da un’affascinante vetrata...
Questa volta – per caso – ero in anticipo, e mi presi una cioccolata alla macchinetta. Poi mi voltai, sentendo un chiacchierare allegro, e vidi una ragazza seduta su un gradino, con tre ragazzi intorno che la prendevano un po’ in giro. Loro andavano a Venezia per una gita; lei aveva capelli lisci e gonfi, e un sorriso incantevole.
La giornata era bellissima, lucida di nuovo sole, e i tre cercavano di trascinare fino in laguna la ragazza, che doveva scendere a metà strada. Uno di loro le disse: «Sei una guida, sei tu che devi farcela vedere, la città». Allora io le chiesi se era davvero una guida, e lei mi disse che assolutamente no, era solo una studentessa di lingue straniere. Così mi inserii nel loro chiacchiericcio, divertita da quell’energia luminosa dei vent’anni, dalla gioia di vivere che sbocciava in tutti loro con prepotenza, e fioriva in quel sole di febbraio.
Arrivò il treno, salimmo insieme; uno di loro mi prese il braccio per aiutarmi a salire, con gentilezza antica, e percorremmo insieme il breve tragitto, attraverso i paesi della riviera del Brenta. Per uno strano miracolo del momento e dell’ora ci pareva di essere un gruppo di amici che andavano in villa: io proposi un piccolo enigma, che risolse la ragazza, Roberta; e loro anche ne proposero, chiedendo a me di indovinare perché avevano tutti e tre nomi stranieri: cioè, da dove venivano i loro genitori. Roberta scese a metà strada, noi rimasti sul treno giocammo con indovinelli e battute fino a Mestre, dove dovevo scendere io.
Mi accompagnarono festosi fino sul marciapiede, e ci dicemmo addio. E io, dopo aver cambiato treno, percorrendo i verdi paesaggi del Friuli continuavo a pensare a loro. Cosa avrebbero visto – e capito – di Venezia? Avrei voluto esser là e portarli nei miei posti privati, lontano dalla folla che si incanala sugli stessi passaggi obbligati, nelle calli remote dove si sente sgocciolare un’acqua segreta, e improvviso si apre un giardino. E poi davanti al Leone in cima alla colonna sulla piazzetta, tutti col naso per aria, a raccontargli le storie della spavalda repubblica che chiamava se stessa “La Dominante”, con superbia orgogliosa.
E mi sarebbe piaciuto anche descrivergli il carattere di coloro che fecero la città: non solo le visioni di bellezza che ognuno conosce e che il mondo ammira, ma la lezione del nerbo morale, dell’energia indomabile che intorno alla loro piccola patria, cresciuta e diventata fortissima a partire da una manciata di pali piantati nelle lagune, seppero costruire quei poveri sopravvissuti alle tempeste delle invasioni barbariche e alla fine dell’impero romano. E penso che loro avrebbero capito.

di Antonia Arslan