Fine quattrocento, l’Italia è un paese in profonda crisi, morale, spirituale, politica, militare. è indubbio che tale crisi si manifestava anzitutto agli animi degli intellettuali italiani dell’epoca. la scomparsa di pico e poliziano nel 1494, a due soli anni dalla morte di Lorenzo il magnifico, e la calata dell’esercito francese in Italia parvero segnare la fine di un mondo.
La stessa frammentazione linguistica si faceva leggibile come metafora di profonda disarmonia, di angustia di vedute, di animi impotenti e velleitari, di logiche meschine. in tanta prostrazione un giovane veneziano intuisce – e su questa intuizione scommetterà l’intera sua vita – che il riscatto dalla crisi abbia a essere anzitutto un fatto culturale. egli giunge a pensare che il ceto intellettuale italiano vada riunificato dotandolo di un’unica lingua per la scrittura. Perché questa possa prevalere venendo da tutti accettata, dovrà godere di un prestigio indiscusso ed è la ragione per la quale egli la saggerà nei massimi esemplari dell’aureo trecento. Non è una scelta conservatrice: è una scelta politica – se diamo alla parola il suo nobile senso.
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