editoriale 173

di Gianfranco Ravasi

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Persino Nietzsche, che veleggiava ben lontano dall’eredità ebraico-cristiana, era costretto a riconoscere in aurora che «per noi Abramo è più [vicino] di ogni altra persona della storia greca o tedesca e tra ciò che sentiamo alla lettura dei salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro o Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera». non deve sorprenderci allora il fatto che, anche in tempi così “smemorati” come sono quelli che stiamo vivendo, la bibbia sia ancora un libro di “culto”, e non solo in senso liturgico.

La formula “grande codice”, ossia testo capitale di riferimento per l’occidente, coniata dal visionario artista e poeta William Blake, è divenuta – per merito dell’ormai famoso saggio omonimo pubblicato dal critico canadese Northrop Frye nel 1982 – una sorta di vessillo per riproporre le scritture sacre non solo nella vita ecclesiale (e a questo ha contribuito efficacemente il concilio vaticano II), ma anche nella cultura e nella società.

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