La narrazione dei vangeli è un’asciutta e a tratti frammentaria annotazione. Gli eventi, i discorsi, le situazioni emergono spesso in modo appena abbozzato. Certi personaggi appaiono e dispaiono in un baleno: l’emorroissa, l’indemoniato che vive nudo tra le tombe, il ragazzetto che aveva i pani e i pesci, il giovane ricco, il paralitico guarito alle piscine di Gerusalemme, dove l’acqua ribolliva ogni tanto per effetto di correnti e si pensava fosse un angelo… Ma tutti costoro hanno visto Gesù. Lo hanno guardato. E di certo alcuni di loro se lo sono impresso negli occhi in modo indelebile. Il suo volto. lo avranno ricordato o magari rivisto dopo i fatti che li avevano riguardati. E per loro “credere” in lui voleva dire innanzitutto ricordarsi quel volto. Lo hanno visto. E si potrebbe pensare – con quale strazio e quale magone – che i nostri occhi, di povere emorroisse, indemoniati nudi, di ragazzetti che siamo, o di ricchi tristi, ecco, i nostri occhi siano invece così “vuoti” di lui. come un grido. una cavità. una disabitazione.
Verrebbe da dire: “fortunati quegli occhi” che hanno visto e creduto. e rivisto. e ricordato, custodito. ad esempio quelli che l’han visto gridare come un’aquila ferita e potente davanti al sepolcro di Lazzaro, chiamando fuori il suo amico, chiamandolo fuori perché la morte dell’amico è insopportabile più della propria, e perché lui, il nazareno, sapeva che dopo pochi giorni la morte avrebbe baciato la sua bocca con il sapore d’aceto. E lo videro dunque che chiamava fuori il suo amico – l’unico che viene indicato così – perché non voleva restare solo andando di fronte ai giorni della morte. come se fosse lui – si può dire? – ad aver bisogno di lazzaro, della sua presenza ora che la fauce dei preti del tempio si stava chiudendo su di lui....
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