Ogni anno ritorno nel mio luogo fatato, le vallette amene e i dolci prati del bellunese, dove scorrono il piave e i suoi affluenti: fra cui il mitico cordevole, il torrente dei giochi della nostra infanzia, selvaggi anche se sorvegliati da una quantità di severissime nonne e zie. Una mezza montagna dai morbidi colori pastello, dove è onnipresente il carpino dalle foglie seghettate e dai rami nodosi e ingarbugliati, ideali per arrampicarsi. ville maestose e case di campagna si affacciano ovunque, grandi e piccine, circondate da curati pendii o da broli fitti di zinnie e coloratissimi gerani: e sempre il centro della facciata è impreziosito dal triangolare timpano veneto, infallibile indizio di un’antica civiltà, quando anche l’umile capomastro che finalmente riusciva a tirarsi su la casa prendeva a modello la bellezza che lo circondava.
Molto, purtroppo, è stato rovinato dalle costruzioni degli ultimi decenni, ma in tanti angoli sembra ancora aleggiare l’ombra di dino buzzati, dei suoi racconti fantastici e dei suoi dipinti allusivi e misteriosi. Andarmene dalla mia vallata mi è sempre difficile. Le alte montagne la circondano e la isolano come in un anello fatato, e io ho sempre creduto – forse con un pizzico di voluta ingenuità – che qui le cose cambiassero meno vorticosamente, che la gente abituata alla dura vita di montagna fosse meno attratta dai facili idoli del cosiddetto progresso.
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