Sironi, cacciatore d’eterno

di Elena Pontiggia

La solidità dei volti, delle pietre, delle periferie del pittore, ora protagonista di due mostre a Cherasco e a Padova, tradisce una chiara sete d’infinito. Il suo obiettivo – spiegava – era «ascoltare la voce di Dio nell’immenso spazio»

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C’è un dipinto di sironi, San Martino (esposto alla mostra “sironi, la grandiosità della forma” a Cherasco), che potrebbe stare non solo in un museo, ma anche in una chiesa. e non solo per un fatto estetico, ma anche per il suo insegnamento etico. San Martino (1930) appartiene al periodo espressionista di sironi e a prima vista può non piacere.

Alla fine degli anni venti infatti l’artista attraversa una stagione in cui le figure, tracciate con pennellate violente e approssimative, tendono a disfarsi, dando vita a «personaggi deformati e dolorosi che sembrano dipinti col sangue», come scrive un critico proprio di quest’opera, quando viene esposta alla quadriennale di roma del 1931. Non siamo di fronte a una bellezza decorativa (nonostante la sapienza del colore, dove le dominanti tenebrose sono rotte da bagliori rossastri e da brevi chiarori), ma a una straordinaria forza espressiva. come sempre nell’espressionismo, all’arte si arriva non attraverso l’armonia, ma attraverso il dramma: una strada certo più lunga, più ardua, dai risultati più dubbi, che però il novecento ha percorso spesso. Non di rado con esiti alti, come in questo caso.

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