Negli ultimi anni è stata citata in ogni contesto immaginabile la frase di fëdor dostoevskij «la bellezza salverà il mondo». più raramente però viene definito il termine “bellezza”, il cui senso è lasciato all’interpretazione del lettore o dell’ascoltatore. tale omissione crea problemi soprattutto quando chi cita la frase dostoevskiana l’applica all’arte cristiana, antica o contemporanea, che finisce ridotta a veicolo di un’esperienza estetica immaginata come salvifica – concetto, questo, più new age che evangelico.
Se si torna invece all’origine del discorso sistematico moderno intorno alle arti – alla letteratura d’arte del periodo che ha plasmato il nostro concetto di ciò che è bello, cioè il rinascimento –, emerge che i termini usati per connotare la bellezza dell’arte vengono quasi sempre abbinati a un secondo concetto, che li condiziona e li qualifica, e che riguarda non l’impatto estetico dell’opera visiva bensì il suo impatto intellettuale e morale. i secoli xv, xvi e xvii sembrano aver compreso che l’impatto estetico di un’opera d’arte, che in ogni caso può scaturire da stimoli di diverso tipo, è sempre e comunque subordinato alla sua funzione comunicativa.
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