Usiamo normalmente il termine “bello” per indicare la scoperta di una corrispondenza con persone, cose e contesti in cui c’imbattiamo: segnaliamo così un’esperienza che ha carattere di felicità, di appagamento, di riposo, di spontaneità, persino di conoscenza e di affezione. d’altro canto, subito siamo portati a ritenere che quanto è emerso nel rapporto sia qualità oggettiva, intrinseca cioè a ciò che ci è parso bello. sappiamo che sono ore e giorni felici quelli in cui questa parola prende spazio nel lavoro e nel riposo, ore e giorni che ricordiamo con nostalgia e che ci rendono solidali tra noi, amici.
Inoltre, in base a questa esperienza ci convinciamo che la bellezza è dono, qualcosa cioè che supera le nostre misure, di cui ci sfugge la definizione esatta ma di cui avvertiamo un assoluto bisogno, sempre. Ha dunque colpito nel segno san tommaso d’aquino, tanti secoli fa, chiamando questa nostra, attuale esperienza estetica fissata in un “oggetto” «id quod visum placet» o «id cuius ipsa apprehensio placet», e individuandone i tre caratteri di «integritas sive perfectio, proportio sive consonantia, claritas» o luminosità, splendore, evidenza.
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