arrivano notizie da aleppo, sempre più tragiche, sempre più angoscianti. e giorno dopo giorno si scava dentro di me un’assenza, una privazione. mitica aleppo della mia giovinezza... lo zio zareh abitava di fronte alla cittadella, e aprire le finestre alla mattina significava immergersi in un’atmosfera di medioevo ancora vivo: non gli scenari aggiustati e corretti di un film hollywodiano in costume, ma la realtà concreta di mendicanti e cavalieri, di stracci dimenticati su una soglia e di donne accovacciate per terra, che vendevano le loro povere cose (frutta, oggetti, latte condensato), distese su un tappetino bisunto. le cugine venivano a svegliarmi con un appetitoso vassoio di caffè, latte e cioccolata, marmellata di rose, brioche e panini dolci. mi avevano sistemato in una camera orientaleggiante, con tende oscure alle finestre e un ampio, sontuoso letto a baldacchino (ahimè abitato da innumerevoli famiglie di ragni, che scendevano piano piano appena spegnevo la luce: dopo una prima notte di incubi, dormii sempre raggomitolata sotto il lenzuolo).
poi andavamo in esplorazione, io e le sette cugine. furono giorni felici di passeggiate interminabili nell’antica città, con brevi soste nella quiete ombrosa di qualche caffè, ammirando le facciate delle case, le rose rampicanti, i grandi portoni austeri e le vezzose finestre con le persiane dipinte. era il mese di maggio, il calore non ancora fortissimo, un intossicante profumo di gelsomini in fiore (ma anche, a volte, di decomposizione...). e poi andavamo nel suk, e ci perdevamo nei suoi immensi corridoi a volta, intrisi di aromi d’oriente. le mille spezie dai colori intensi, i venditori di salsiccette arrostite coi loro trespoli e la merce illuminata da una minuscola lampada ad acetilene, gli antri dei venditori di tappeti dall’odore secco e polveroso, che mi facevano venire in mente il deserto d’arabia e le infinite strade percorse dai lenti cammelli per portarli fin là. accettavamo volentieri un caffè e un dolcetto da monsieur ibrahim, amico di vecchia data di zio zareh e di alice, la sua bella, maestosa moglie assira. le cugine si perdevano in chiacchiere, nel melodioso francese aleppino; io stavo seduta su un tappeto, respirando con gioia quella misteriosa atmosfera. e un giorno lo zio ci raggiunse, ci portò dai venditori di gioielli e mi regalò un braccialettino di filo d’oro. zio zareh è morto tanti anni fa, e anche zia alice. le cugine sono emigrate. stanno fuggendo gli armeni di aleppo, e la città sta morendo. i bombardamenti dalla terra e dall’aria l’hanno rasa al suolo, mi dicono i profughi. e il mio cuore piange.
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