Leggo che le piogge hanno smottato le balze di volterra. quante volte ci sono andata! come se raggiungere quell’aerea città mi divenisse improvvisamente necessario. Girare per botteghe a comperare trasparenti oggetti d’alabastro, camminare per le strade e svoltare verso inaspettati balconi fioriti, cascate di glicini come chiome lussureggianti: e infine approdare in alto, e contemplare i tetti dalla terrazza nascosta di un piccolo albergo, dove in un giorno incantato di luglio mi lavai i capelli, me li asciugai al sole e fui completamente felice.
La prima volta ero all’università e studiavo archeologia. eravamo un gruppo di amici, studenti come me, con un professore che ci guidava. le porte etrusche, che meraviglia! Mi sedetti davanti alla porta all’arco, col naso all’insù. Vedevo guerrieri e donne affaccendate, immaginavo le mitiche città della dodecapoli etrusca, le loro alleanze e guerre, sentivo mercanti e contadini parlare in quella lingua misteriosa che – mi aveva assicurato un vecchio amico di mio padre, un sapiente, vagabondo poeta – somigliava all’armeno antico, il famoso krapar della messa, dai suoni ieratici e oscuri. l’anno prima avevo conosciuto massimo pallottino, il grande etruscologo, alla sua laurea honoris causa all’università di strasburgo.
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