La sobrietà, perfino il digiuno, anche la privazione, possono essere frutto di libertà. la stessa povertà, quando è volontaria, è notoriamente causa ed effetto di libertà spirituale. francesco d’assisi non peccò certo di gola chiedendo, in punto di morte, di poter assaggiare un’ultima volta i prelibati mostaccioli che preparava per lui, a roma, madonna iacopa de’ settesoli. Fu un omaggio estremo a quella che, in tutti i possibili sensi della locuzione, potremmo definire la “grazia di dio”. la bellezza e la bontà del creato: i colori, gli odori, i sapori. un cibo materiale gustato spiritualiter.
così era nei monasteri, dove – anche in quelli di più rigorosa disciplina – gusto e decoro non mancavano mai. Povertà non significa né miseria, né disdoro, né squallore. pensiamo solamente al fatto che ancor oggi una delle migliori cioccolate al mondo è prodotta dai monaci cistercensi “trappisti”, i più rigorosi in quella congregazione benedettina strettamente vegetariana e usa a digiuni e astinenze prolungati. e pensiamo ancora a un’altra congregazione benedettina, i certosini, notoriamente espertissimi in formaggi molli e in distillati alcolici. Ordine, sapienza, esperienza, misura. il fraticello goloso e rubicondo che s’intrufola in cantina, che s’ingozza di salsicce e si strafoga di birra o di vino è solo una trovata per divertire i bambini: non senza una qualche pennellata di anticlericalismo volgare.
Come, e perché, dunque, gli austeri monasteri medievali sono stati per molti versi la culla del buon cibo e perfino della gastronomia? la risposta sta nella vita stessa dei monasteri come centri di cultura e di produzione, luogo anche di giardinaggio, di orticoltura (essenze medicamentose comprese) e di allevamento. non per caso, il termine “ricetta” è tanto medico e farmacologico quanto gastronomico e culinario.
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