Era amato da tutti, da sua madre e suo padre, suo fratello, i pittori, i medici, i compagni di strada che si scelse, più o meno sbagliando, come tutti. sapeva poco d’arte, ma aveva studiato copiando e ricopiando i dipinti di jean-françois millet. Nei tempi duri leggeva le tragedie di Shakespeare, Renan, Turgenev, Voltaire. Non era “nato pittore”, come avrebbe detto uno storico antico, ma lo divenne quasi per necessità, una sorta di senso del dovere: la possibilità di restituire significato a quei paesaggi di cui il suo carattere e la sua cultura si nutrirono fin dalla giovinezza, vissuta tra tensioni e passioni contrastanti, una sconfinata bontà, un’infinita aspirazione al bene.
Quel che vediamo oggi, nell’opera di Vincent Van Gogh (Zundert, 30 marzo 1853 – Auvers-sur-oise, 29 luglio 1890), è un monumento alla natura, una natura sentita ancora come “madre” e non “matrigna”: dal cui suolo salgono figure che letteralmente ne fanno parte, condividendo le stesse linee, gli stessi colori, gli stessi gorghi tormentati che trasformano l’antico segno diviso dei pointillistes in uno specchio immediato tra la cosa e la sua anima. «devo poter esprimere attraverso il disegno e la pittura quello che ho dentro la mente e il cuore».
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