Sua è la Monna Lisa del novecento. Quando Steve Mccurry ritrae Sharbat Gula, nel 1984, in un campo profughi del pakistan sa di aver realizzato una delle sue foto più belle.
Ma non immagina che quello sguardo magnetico e fiero sarebbe diventato un’icona in questi trent’anni splendidi e terribili. La luce di quegli occhi verdi e il dolce volto di ragazza, incorniciato in un velo rosso, stinto e lacero, fanno parte del nostro orizzonte e non c’è immagine di modella, attrice o principessa che possa competere con quella della ragazzina analfabeta e senza patria. Gli ho chiesto il perché: perché proprio quell’immagine tra le centinaia di migliaia di suoi scatti e i milioni di tanti altri fotografi? «Non so darle una risposta. so che ero felice quando scattavo quelle foto: sentivo che la piccola profuga afghana era come un dono.
E poi le immagini sono come la musica, come le note sembrano perdersi nell’aria e poi ti entrano dentro, diventano tue. Vedi quella foto, ti piace e poi piace a tanti altri. Entra liberamente negli occhi e nel cuore. in qualche modo sharbat gula è entrata in rapporto con me, mi ha colpito subito con quello sguardo e poi ha colpito tanti altri, sempre di più. non è l’autore, ma la gente a fare dell’immagine un’icona. Senza questo consenso di popolo sarebbe rimasta solo una bella foto tra le tante».
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