A differenza di Narciso che nell’immobilità rimira la bellezza riflessa nell’acqua, Antonio Ligabue zampettava tra terra e fiume con uno specchio appeso al collo, all’andatura ciondolante di un uccello planato dal cielo. non per specchiarsi vanitoso in quel malridotto pezzo di vetro ma per vedere se a forza di andare su e giù tra i pioppi del po, di calpestare fango in golena, incominciava ad assomigliare a un’aquila.
Voleva volar via dal mondo ingrato degli uomini, “toni al matt”, e per questo emetteva grida da rapace accompagnate a un agitare del collo, un su e giù convulso, passi brevi e goffi in sintonia con le urla terrificanti. Mi pareva di sentirli quei versi da bestia mentre andavo per i paesaggi di Gualtieri, monocolori nella bruma invernale, in cerca dell’aura del pittore. avevo ancora negli occhi il documentario di raffaele andreassi, antonio ligabue pittore, testimonianza di tragedia e dolore che mostra le movenze animalesche di toni in riva al fiume: era il 1962, tre anni prima della morte al ricovero di mendicità carri di gualtieri. le sequenze indugiano sul primo piano del suo volto animalesco che si sdoppia nello specchio, sformato da vagiti selvaggi. Se uno le guarda restano nel subconscio con una forza inestricabile.
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