La gioia forgiata dal dolore

di Antonia Arslan

Molti hanno cantato la maternità: ma tutti dimenticano la fatica e la paura, provate anche da Maria

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Maternità. quali immagini si risvegliano in noi davanti a questa (ahimé spesso abusata) parola? Generosità, calore, condivisione, protezione? O anche inadeguatezza di fronte a una situazione nuova, paura del parto e delle trasformazioni fisiche che una gravidanza comporta, di una giovinezza che sfiorisce, dell’ingrassare, del dover dividere l’amore? Sensi di colpa – o un senso di sfida verso quella narrazione un po’ artificiale che vede nel diventare madre il momento, per la donna, di un’emozione così forte e nuova che non è pari a nessun’altra? Cosa lega, infine, al di là di ogni retorica, una donna che ha partorito al frutto del suo ventre, la creatura che il suo corpo e le sue vene hanno cresciuto e nutrito fino alla realizzazione di un essere umano compiuto e autonomo? E non sentire questa emozione primaria fa di te una cattiva madre?

Questa e altre vaghe riflessioni mi passavano per la mente mentre sfogliavo un delizioso piccolo libro dedicato al natale in poesia, un’antologia di poeti che lungo i secoli si sono confrontati con il mistero e la gloria del Natale (Natale in poesia. Antologia dal IV al XX secolo, interlinea). Molte cose belle, molti versi affascinanti; ma appunto si parla molto del bambino – appena nato e pure già dio, che vagisce in una capanna riscaldato soltanto dal bue e dall’asinello –, degli angeli e dei pastori, poco della madre, e pressoché niente del fatto che ha davvero appena partorito, che la sua maternità trionfante e pietosa è passata attraverso la reale sofferenza fisica del dare alla luce una creatura.

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