Sayat, l’ultimo trovatore delle terre di Armenia

di Antonia Arslan

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Una sera a ravenna, parecchi anni fa, ho visto il famoso film di Sergej Paradjanov, il colore dei melograni. eravamo pochi in sala, concentrati sulle superbe, sontuose immagini che descrivevano la vita del grande poeta Sayat-Nova, l’ultimo degli ashug d’armenia, i trovatori-cantastorie che vivevano presso le corti principesche del caucaso e cantavano epici fatti d’arme, gloriose imprese e donne bellissime dalle sinuose forme, simili a ogni albero o fiore del mondo creato, di fronte alle quali il poeta poteva soltanto inchinarsi e gemere d’amore. 

Ci pareva di essere immersi in un’atmosfera irreale e arcaica, contemplando dei quadri che lentamente fluivano l’uno nell’altro, seguendo un ritmo misterioso. il regista, geniale armeno malvisto dal potere sovietico, era riuscito a legare fra loro, con immagini folgoranti e squisite, poesia e musica: il ritmo dei versi sembrava essersi riversato in suono e visione, esercitando sullo spettatore una suggestione quasi ipnotica.

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