C’è un popolo in attesa sotto la bianca tenda dell’Ararat

di Antonia Arslan

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​«Via dalla montagna sacra: l’ararat ora sarà per noi un paese straniero»: così piansero gli armeni, in tutti i luoghi del vasto mondo dove la diaspora successiva al genocidio del 1915 li aveva portati, quando dall’ottobre 1921, col trattato di kars, la grande montagna, simbolo fortissimo della loro unità di popolo, venne ceduta dai sovietici a quella assemblea nazionale che ben presto sarebbe diventata la repubblica di Turchia.

Ma l’Ararat (che gli armeni chiamano massis) è oggi più che mai presente nell’immaginario del popolo armeno. la sua vista incombe sulla capitale yerevan, anche se le sue due cime sempre innevate sono drammaticamente lontane, al di là della chiusa frontiera con la turchia, oltre il famoso ponte spezzato sul fiume akhurian che univa le due parti del regno d’armenia. Oggi dal monastero di khor virap vedi solo qualche sparso gregge che si aggira nella terra di nessuno tra i due paesi e, lontana, una baracca di soldati. nessuno che porti un nome armeno ha il permesso di salire lassù.

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