Il fatto che nell’ebraismo, e quindi nel cristianesimo, esistano delle “montagne sacre” (il gebel musa nella penisola del sinai, il monte moriah, il calvario stesso) non significa che, in queste religioni, le montagne siano sacre in quanto tali. Eppure, esse ci pongono sulla strada della percezione di quel quid di sacralità di cui hanno spesso parlato esploratori, scalatori, alpinisti: l’ascesa fisica del monte, con la sua fatica e magari la sua paura, come momento propiziatorio all’ascesi interiore – ne parla con profondità il petrarca nella sua pagina sull’ascensione al provenzale mont ventoux –, che rende in qualche modo “più prossimi a dio”.
Ne hanno parlato anche voltaire, ascendendo il grütli in svizzera, e alphonse daudet, descrivendo sia pur con ironia l’alba brumosa sulla jungfrau. in montagna è facile provare quel terrore dinanzi al sacro (vere terribilis est locus iste) che gli antichi ben conoscevano e che Goethe liricamente spiritualizza nel suo über allen gipfeln.
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