Pistoia, città in bianco e verde

di Ugo Feraci

Dalle facciate bicrome delle chiese alle storiche rivalità interne e spinte eccentriche evocate da Dante. Un ritratto della capitale italiana della cultura

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«Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch’i’ fui; son vanni fucci / bestia, e pistoia mi fu degna tana» (inferno XXIV, 124-126). La fama nera di pistoia si è appiccicata addosso ai pistoiesi, i quali, peraltro, quasi compiaciuti, non si sono mai dati troppo da fare per sconfessarla. le funeste e interminabili faide medievali, colorate di interessi politici, sono state perfino “fondate” filologicamente nel passato remoto della città, ai tempi di quel catilina che diede filo da torcere a cicerone e fu sconfitto con il suo manipolo di rivoltosi sulle colline pistoiesi. giannozzo manetti, storico e umanista, nella sua historia pistoriensium (1447 circa) ne deriva infatti l’ètimo stesso della città, che a suo dire fu chiamata pistoia dai pestiferi e pestilenti avanzi dei soldati di catilina.

Questo destino di accesi contrasti sembra inscritto, d’altra parte, nelle pietre che identificano ancora oggi il volto medievale della città. molto, se non tutto, infatti, ebbe inizio alla metà del XII secolo quando il vescovo del tempo, un monaco vallombrosano di nome atto, con illuminata lungimiranza fece pervenire a pistoia una reliquia di San Giacomo apostolo. Correva l’anno 1144 e il vescovo fece edificare subito una cappella in cattedrale con il vivo desiderio di tornare alla genuinità delle origini cristiane, ma anche per contrastare le pretese del neonato governo comunale.

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