Due famiglie, una guelfa e l’altra ghibellina. tre torri ancora in piedi, altrettanti presìdi di supremazia verticale. e quattro quartieri dai vessilli sgargianti. l’impasto-base dell’oleografia medievale – borgo da cartolina e calamita da frigorifero (la rupe ridotta a un impreciso skyline magnetico) – a orvieto non manca. anzi, ne sublima la quintessenza. idem per i suoi atout più celebrati: pietra e affreschi, maioliche, trine e vino, etruschi e jazz.
L’urbs vetus pare tuttavia vivere la propria aura basculando tra il blasé compiaciuto e un sardonico broncio, senza derive contradaiole e col minimo sindacale di campanilismo. ha trovato, superandola, la sintesi tra l’autentico e il turistico? Scandiamo il secondo – ora palco o quinta, ora platea – in cerca del primo. La sua natura è porosa come il tufo che la sorregge, impermeabile e compatta quanto l’argilla su cui poggia.
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