«Mi è stato donato un corpo: che farò di questo dono unico e mio? a chi dovrò essere grato di questa sommessa gioia di respirare ed esistere? Il mio respiro si posa già sui vetri dell’eternità, sì, caldi del mio fiato scola via la fanghiglia dell’istante, rimane il caro disegno del mio essere». Così osip mandel’štam, il grande poeta russo morto in un lager staliniano in una data incerta (forse il 1938), dà voce a una comune esperienza umana.
In questi versi si raggruma, infatti, la sconcertante e mirabile bipolarità della nostra corporeità: l’essere fanghiglia temporale, finita e caduca, e l’essere respiro che alona i «vetri dell’eternità»; in sintesi, un simbolo “carnale” dell’anima che anela all’eterno e all’infinito. Intere biblioteche di saggi sono state dedicate al tema della corporeità in connessione con le varie religioni.
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