Il progresso non ci rende più sapienti

di Gilbert Keith Chesterton

In questo inedito, la prospettiva nelle arti diventa metafora per un più ampio discorso culturale: perfezionare e accumulare conoscenze non equivale a una più approfondita e significativa visione del mondo, dell’uomo, di Dio

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Quando eravamo bambini, in molti abbiamo letto il saggio di macaulay sui colloqui sulla società di southey, e l’abbiamo trovato perfettamente adatto alla mente di un bambino, in quanto rappresentava il meglio e il peggio di macaulay, scrittore che non ha mai smesso di essere infantile. Non c’è bisogno di essere un medievalista per divertirsi nel vedere in che modo laborioso ed estremamente letterale macaulay dimostra che gli abitanti delle città industriali sono più felici dei loro padri, che erano cacciatori e combattenti, semplicemente perché vivono più a lungo. sembra che macaulay non si renda conto che il luogo dove le persone vivrebbero più a lungo, e nel modo più sicuro, sarebbe una prigione o un manicomio.

Non propongo di riesaminare questa remota e probabilmente dimenticata controversia dei primi dell’ottocento, ma voglio solo estrapolarne un testo. Tra le opinioni di robert southey che apparivano più arbitrarie e bizzarre agli occhi di thomas babbington macaulay vi era questo concetto: «non ho mai creduto alla maggiore felicità dei selvaggi, ma penso che una nazione che abbia progredito fino a un certo grado di civiltà sia più felice di una che progredisca all’infinito». 

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