Oslo e il suo doppio

di Federico Geremei

La capitale norvegese vive di binomi. Una natura duplice che si riflette in ogni cosa

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Per parecchio oslo s’è chiamata christiania, come l’enclave utopica (ma a suo modo reale) che da quasi mezzo secolo occupa un’ex area militare a copenaghen. Cinquecento chilometri separano le due capitali scandinave, due mari le uniscono: quello aperto, si fa per dire, dello skagerrak e il cuneo liquido del fiordo di oslo. A sancire l’ab urbe condita danese in terra norvegese ci sono due mani destre di cristiano iv, gli indici puntati a terra.

Una prende la forma del guanto disegnato vent’anni fa dalla scultrice wenche gulbransen, sineddoche in metallo per una fontana a due passi dalla fortezza di akershus. l’altra è corredata di tutto il resto, la statua che omaggia il sovrano della dinastia degli oldenburg: troneggia dal 1880 nella stortorvet (piazza grande) davanti alla domkirke, il duomo della città. partiamo da questo primo bis per solcare oslo sul filo del doppio, scomponendo l’idea di una realtà omogenea, tutta oleografia da cartolina – alci e troll tra gitanti aitanti su viali, moli e sentieri, mattoni rossi soverchiati da cieli ineffabili – e tentare una sintesi: quanto si sente matura?

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