In una delle sue ultime interviste, ingmar bergman tira fuori dalla tasca un foglietto a quadretti scarabocchiato e legge l’elenco dei suoi demoni. «il peggiore è il demone del disastro – comincia – ho un alto livello di preparazione al disastro». I più lo chiamerebbero “pessimismo”, ma il pessimismo attiene a un sentire empirico, inaffidabile, dell’esperienza ordinaria, invece il demone di bergman – e questo è chiaro in tutta la sua filmografia – riguarda la sostanza stessa della realtà, quella di cui il nostro prosaico agire quotidiano non si occupa minimamente.
Il “demone del disastro” è un’ipersensibilità al declino delle cose, alla consunzione, alla vocazione della vita di sbocciare appena un attimo prima di rivelarsi e poi appassire. è quella che i giapponesi – nella loro epoca d’oro di dame di corte coltissime e solitarie – chiamavano mono no aware, lo stordimento ammaliato di scoprire che ciò che è bello deve terminare, la consapevolezza che la bellezza viene proprio da un’acuta e preziosissima percezione della fine. dal “demone del disastro”, appunto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Abbonati a Luoghi dell’Infinito per continuare a leggere
La rivista è disponibile in formato cartaceo e digitale
Abbonati alla rivistaSei già registrato? Accedi