Appena nacque nostro figlio, venne a trovarci in ospedale padre bruno, una carissimo amico, mio e di mia moglie, un vecchio sacerdote che qualche anno prima ci aveva sposati. Non seppe resistere alla tentazione e, come tutti gli anziani che si trovano davanti a un neonato, cominciò a sorridergli e a scherzare con la voce, cercando di attirare l’attenzione di quell’esserino che aveva solo qualche ora di vita. Ci guardò, guardò nostro figlio, poi disse: «bene, avete fatto un corpo, ora dovrete farne un’anima!». Salutandoci sorrise e uscì dalla stanza.
Che cosa voleva dire “farne un’anima”? io e mia moglie ci scambiammo uno sguardo interrogativo. i nove meravigliosi mesi di laboriosa gravidanza, e tutte quelle ore faticose del parto, l’avevano sfinita: umanamente non le si poteva chiedere nessun altro sforzo in più in quel momento, anche perché quei 2 kg e 950 gr di esserino ai nostri occhi erano bellissimi, e benché le dimensioni prefigurassero un avvenire da brevilineo, eravamo convinti che non mancassero di nulla.
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